Articoli con tag: culti

Vic Chesnutt (2007)

Sono io il primo a esserne stupito, ma a quanto pare non ho mai scritto nulla di esteso a proposito di Vic Chesnutt. In archivio ho trovato solo questo “Oltre le stelle” dedicato al suo album forse più bello, North Star Deserter; lo propongo qui a dieci anni esatti dalla morte del cantautore americano, a soli quarantacinque anni.Un disco che divide, poche storie: perché Vic Chesnutt non è certo uno leggero, perché quanti lo apprezzano nella sua veste più “convenzionale” potrebbero trovare un po’ ostico l’apporto strumentale dei Thee Silver Mt. Zion, perché – viceversa – i cultori della Constellation potrebbero non gradire particolarmente un approccio al songwriting che rimane, ed è più che comprensibile, cantautoriale. Chi entrerà, emotivamente e non solo musicalmente, in North Star Deserter, gli riconoscerà però senza dubbio la statura del capolavoro: perché dall’incontro fra due “mondi” artistici che potevano ritenersi inconciliabili sono scaturiti risultati di grande equilibrio, armonia e spessore, e perché l’intensità dei suoi dodici episodi all’insegna di atmosfere cupe e toni un po’ “lamentosi” – tendenzialmente fragili e scarni, ma a tratti accesi di deflagrante, pur misurato vigore – è di quelle che lasciano ipnotizzati, pacificati a dispetto delle inquietudini, splendidamente rapiti.
(da Il MUcchio Selvaggio n.646 del maggio 2008)

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John Peel (1939-2004)

Il 25 ottobre 2004, ad appena sessantacinque anni, moriva John Peel, maestro e irraggiungibile modello per chiunque abbia fatto o voglia fare radio in ottica “rock”. Le sue “session” alla BBC hanno fatto storia e nel 1986, quando venne varata una collana di 12”EP che iniziò a pubblicarle su disco, non mi sottrassi al dovere morale e al piacere di scriverne. A quindici esatti dalla scomparsa, riproporre qui il vecchio articolo mi sembra un buon modo per ricordare con affetto il grande operatore culturale inglese, anche se ovviamente, dopo decenni di “John Peel Sessions” finite su vinile e CD, il recupero ha un senso molto relativo. Magari, però, a qualcuno può interessare come tutto cominciò.
Chiunque sia appena un poco addentro alle vicende del rock britannico si sarà almeno una volta imbattuto nel nome di John Peel, distinto gentleman di quarantasette anni che da parecchio tempo si trova ad essere il DJ/programmatore radiofonico più stimato e popolare del Regno Unito. Il segreto di Peel, oltre che nella competenza musicale e nell’innata capacità di selezionare il materiale discografico più valido fra le migliaia di prodotti che gli vengono sottoposti, consiste nell’avere “inventato” un programma di grande interesse, che prevede la registrazione e il conseguente broadcasting di session realizzate negli studi londinesi messi a disposizione dalla BBC londinese. A Radio One, dagli anni Sessanta ai giorni nostri, sono state trasmesse le “John Peel Sessions” di centinaia di gruppi e solisti, dai Pink Floyd ai Sisters Of Mercy, da Jimi Hendrix a Elvis Costello, dagli Who ai Damned, dai Led Zeppelin ai New Order, da John Cale ai Jesus & Mary Chain; in pratica, la storia del rock d’oltremanica e internazionale è stata fissata in queste mini-esibizioni della durata di circa venti minuti, il cui valore documentaristico è pressoché incalcolabile: John Peel, infatti, predilige gli artisti che propongono versioni spontanee e un po’ grezze di brani inediti al momento dell’incisione, in modo da mettere a nudo la reale consistenza dei musicisti e le loro possibilità evolutive.
Fino a pochissimi mesi fa, queste registrazioni conoscevano l’onore del vinile solo su bootleg e in casi sporadici in singoli, EP o compilation ufficiali; è quindi notizia assai gradita che la Strange Fruit Records ha raggiunto un accordo con la BBC per la pubblicazione di una congrua serie di session, che vedranno mensilmente la luce sotto forma di 12”EP. Confezionati con una veste grafica standardizzata e piuttosto spartana, i dischi hanno tutte le carte in regola per catturare l’attenzione di fan, collezionisti e semplici appassionati: a conferma delle buone intenzioni della label, basterà ricordare le prime emissioni già disponibili sul mercato, alle quali, quando leggerete queste righe, se ne saranno di sicuro aggiunte parecchie altre. Il numero 001 del catalogo racchiude quattro composizioni dei New Order registrate il 1° giugno 1982: ben prima, dunque, che la band nata dalle ceneri dei Joy Division venisse contaminata dal morbo dance che ha allontanato da essa buona parte dei suoi vecchi sostenitori. Rarefatte e affascinanti, queste tracce (fra le quali spiccano un rifacimento di Turn The Heater On, un reggae firmato Keith Hudson, e la splendida Too Late) non mancheranno di entusiasmare tutti coloro che amavano i vecchi New Order, mentre lasceranno sicuramente indifferenti chi del complesso conosce solo i più recenti episodi “da ballo”. Atmosfere totalmente differenti, invece, nel numero 002, con quattro classici» dei Damned “prima maniera” trasmessi nel maggio del 1977; chi ancora non è riuscito a comprendere quanto il punk potesse essere sconvolgente e dissacrante farebbe bene ad ascoltare queste eccellenti interpretazioni di Vanian, Sensible, Scabies e James (già, perché all’epoca il magico chitarrista dei Lords Of The New Church suonava con i Dannati e per giunta scriveva tutti i pezzi…), che nella travolgente Sick Of Being Sick si innalzano in tutta la loro irruente grandezza. Per avere poi ancora più chiaro il concetto di “vero punk-rock” sarà utile procurarsi lo 004, contenente alcune discrete performance datate settembre 1978 degli irlandesi Stiff Little Fingers: non avranno la potenza di quella dei Damned, ma bastano a garantire un quarto d’ora di autentica eccitazione. Leggere inclinazioni punk si ritrovano anche nel numero 003, firmato dagli Screaming Blue Messiahs e risalente al luglio 1984; fra riferimenti ai primi Clash e ispirazioni di altro tipo, il terzetto offre un eloquente saggio della sua musica in biblico fra rock`n’roll e influenze black, evidenziando una buona vena espressiva purtroppo penalizata da una esposizione eccessivamente naïve. L’elenco, per il momento, è completato dagli Wild Swans (n.006), formazione di Liverpool fondata dall’ex tastierista dei Teardrop Explodes Paul Simpson (qui, però impiegato come cantante) e scioltasi dopo una brevissima carriera. Questa John Peel Session del maggio 1982 raccoglie tre composizioni inedite, due delle quali, con i loro suoni aggraziati e il loro canto “soft” richiamano alla mente gli Smiths (che all’epoca ancora non esistevano); la terza, una semi-improvvisazione forse non esaltante ma certo non disprezzabile è invece un’allucinata incursione strumentale in territori filo-psichedelici. Come giudicare, insomma, questa iniziativa della Strange Fruit? Una lodevole operazione artistica? Una speculazione commerciale? Un ulteriore mezzo per inflazionare un mercato già fin troppo esuberante? Come sempre, le generalizazioni non possono essere adatte per i singoli casi: alcuni di questi dischi risulteranno inutili, altri sufficienti, altri ancora imperdibili. Ai manager dell’etichetta il compito di porre in vendita le session più riuscite, evitando la diffusione di quelle meno significative o, almeno, limitandola il più possibile.

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Thin White Rope (1985-1992)

Frugo l’archivio digitale e cartaceo in caccia di materiale riguardante i Thin White Rope e dopo parecchie peripezie ne estraggo quattro recensioni di album veri e propri (manca all’appello solo il secondo, Moonhead), due di uscite per così dire secondarie formato mini-LP (manca Red Sun, del 1988) e uno dei due postumi più importanti (l’altro è il live The One That Got Away del 1992, che avrei giurato di aver trattato da qualche parte ma vai a capire se e dove). Un gran bel bottino, nel quale rilevo una scrittura spesso più fantasiosa e visionaria rispetto ai miei standard (no, non mi drogavo; i Thin White Rope bastavano eccome a far viaggiare), che dimostra quanto grande fosse il mio amore, in tempo reale, per questa band straordinaria della quale chi c’era si ricorda ma che è purtroppo ignota a quasi tutti quelli che non c’erano.

Exploring The Axis
(Frontier)
Nelle cerchie di appassionati di rock underground il nome Thin White Rope è noto già da parecchio tempo, nonostante il debutto discografico del complesso californiano sia avvenuto solo ora; la nutrita produzione di esaltanti demo-tape e la pubblicità fatta al gruppo da qualche eminente personalità della scena americana (il produttore Mitch Easter o Scott Miller dei Game Theory, ad esempio), hanno fatto sì che il primo vinile del quartetto divenisse uno dei lavori più attesi del 1985, almeno per coloro che nella musica cercano freschezza, ispirazione e passione. E i Thin White Rope, figli dei deserti assolati di giorno ed incredibilmente scuri dopo il tramonto, non hanno davvero deluso le aspettative di chi li considerava una grande promessa: Exploring The Axis, ottimamente prodotto da Jeff Eyrich (Plimsouls, Gun Club), è un esordio di rara bellezza, di quelli che conquistano dal primo ascolto stupendo solco dopo solco con la loro verve e il loro fascino.
Sotto il profilo sonoro, siamo di fronte a una raccolta di canzoni non eccessivamente elaborate, di più o meno vaga derivazione country ma di solida impostazione rock’n’roll; sono canzoni sinuose, avvolgenti, valorizzate da una chitarra a tratti acida e a tratti limpida alla quale si contrappone il canto pacato, armonioso e “strascicato” di Guy Kyser, mente compositiva e leader della band oltre che probabile ammiratore di Roger McGuinn. I suoi brani sono fra i più evocativi dell’attuale panorama rock e l’uno dopo l’altro, senza neppure bisogno di particolare concentrazione. ammaliano e magnetizzano, proiettano visioni, luci e colori di terre solitarie, di natura selvaggia, di ricordi ancestrali ai quali è dolcissimo abbandonarsi. Non si tratta, comunque, di sterile fuga di sapore allucinogeno, ma di un modo concreto e reale di vivere emozioni sopite, confondendo il vecchio West con il nuovo ma non dimenticando come, in questi mondi paralleli, la vita vada a braccetto con la morte, l’estasi delle lande si mescoli con la possibile disidratazione e l’incanto de1l’avventura giochi una interminabile partita a poker con le pallottole vaganti. Continua a leggere

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City Kids (1985-1987)

In un lontanissimo giorno del 1985 ricevetti dalla Closer, rinomata etichetta francese dell’epoca, un mini-LP dei City Kids, band d’oltralpe che non ricordavo di aver mai sentito nominare. Fu amore al primo ascolto, disturbato solo dalla rivelazione che i ragazzi avevano in precedenza pubblicato un altro mini in tiratura limitata e numerata che temevo di dover inseguire per chissa quanto e pagare a caro prezzo (nel 1985 mica c’erano eBay, Discogs, Amazon e i negozi on line, e certi vinili non particolarmente propagandati erano tutt’altro che facili da trovare). Recensii comunque il nuovo disco e mesi dopo andai ad Arezzo per assistere a un concerto del gruppo, realizzando anche l’intervista che ho qui recuperato (abbastanza nozionistica, ma al tempo era fondamentale raccogliere e divulgare informazioni che non esistevano o quasi). Un anno dopo, il quartetto avrebbe inciso a Firenze – con la produzione questa volta reale di Rob Younger, che feci in modo di incontrare e intervistare (come si può leggere qui) – il suo primo LP, di cui ancora più in basso ripropongo la mia recensione; sarebbero poi arrivati altri due album, nel 1989 una sorta di antologia intitolata 1000 Soldiers (della quale sono certo di aver scritto, ma in archivio non trovo riscontri) e nel 1993 Third Life (del quale, lo ammetto, nemmeno mi accorsi).
Non c’è alcun dubbio che se fossero americani o australiani i City Kids godrebbero di maggiore notorietà e di maggior considerazione da parte della stampa; invece, francesi di Le Havre, devono per ora accontentarsi di un piccolo culto in patria e della risposta entusiastica degli spettatori occasionalmente accorsi ai loro concerti. Forti di un notevole dinamismo on stage e animati da una ferrea volontà di emergere, i quattro transalpini tentano ostinatamente la via del successo, rifiutando di star seduti ad attendere la manna dal cielo e impegnandosi concretamente per catturare l’attenzione di critica, pubblico e mezzi di informazione attraverso una fitta attività live in Europa e un ottimo livello qualitativo delle realizzazioni discografiche. In più, hanno un produttore d’eccezione: Rob Younger, già frontman di Radio Birdman e Visitors, che dalla lontana Australia coordina le operazioni. Insomma, per farla breve, i City Kids hanno qualcosa in più rispetto ad analoghe formazioni underground; e poi, prescindendo dalla ioro abilità, non cercano di nascondere la loro grande competenza nel campo del nuovo rock (conoscono centinaia di formazioni minori, soprattutto americane e australiane) e dichiarano candidamente di ascoltare moltissima musica per trarre da essa i migliori insegnamenti. Il che è sufficiente per renderli ancor più simpatici. Continua a leggere

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The Slickee Boys (1976-1984)

Questa volta il recupero dagli archivi è la monografia che quasi trentaquattro anni fa dedicai a uno di quei gruppi adorabili che non riescono a ottenere ampi consensi ma che sanno come colpire gli appassionati. Benché l’abbia ripulito dai refusi e sfrondato di qualche legnosità, il pezzo rimane stilisticamente pesante oltre che didascalico come i tempi in fondo imponevano (su certi artisti e dischi era arduo reperire informazioni e pertanto, avendole, era doveroso riportarle), ma rimane un reperto prezioso. La band avrebbe poi pubblicato altri due album di studio, Uh Oh… No Breaks (1985) e Fashionably Late (1988), che probabilmente avrò recensito in tempo reale (vedrò di farle saltar fuori, se esistono), e due dal vivo (Live At Last, 1989, e A Postcard From The Day, 2006, quest’ultimo con nastri del 1980-1982); non è insomma poi rimasta a lungo come auspicavo, ma così va il mondo. Cybernetic Dreams Of Pi, presente anche nella mia playlist del 1983, resta in ogni caso un disco di rara godibilità, andatevelo ad ascoltare su YouTube (su Spotify non c’è).
Benché nati nell’anno di grazia 1976, e nonostante il numero piuttosto alto di dischi immessi sul mercato, gli Slickee Boys non hanno mai goduto di particolari attenzioni da parte di critica e pubblico. La loro scoperta è infatti avvenuta soltanto allìinizio di quest’anno, grazie alla popolarità recentemente conquistata dal sound di derivazione Sixties e grazie all’innegabile bellezza dell’album Cybernetic Dreams Of Pi. Gli Slickee Boys non sono, dunque, furbastri che cercano di ottenere consensi proponendo la musica underground oggi maggiormente apprezzata: la loro carriera è stata sempre indissolubilmente legata al r’n’r, ed è perciò doveroso da parte nostra, vista la loro perenne dedizione alla nobile causa. fornirvi qualche informazione in più sulla loro misconosciuta ma interessante attività. Continua a leggere

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