Tra i miei hobby c’è quello di organizzare ristampe estese o addirittura dischi di band scomparse da decenni che in vita pubblicarono pochissimo se non nulla. Non sono io a stampare e distribuire, ho già dato illo tempore e ormai basta, ma mi piace dedicarmi a questi lavori lasciando all’etichetta che ha voluto sostenere il progetto l’onere di occuparsi di tutto. Finora ne ho fatti una ventina, destreggiandomi tra post-punk, neo-psichedelia e punk in senso stretto; per quanto riguarda quest’ultimo settore, qualcuno ricorderà sicuramente i Ride e i Trancefusion. Ora è arrivato il momento dei Wops, il cui LP Spots è appena uscito grazie al sodalizio tra Rave Up ed Hellnation (lo stesso di una ristampa a me molto cara, quella del 7”EP degli Shotgun Solution). Lo si può acquistare nei migliori negozi specializzati oppure direttamente dalla Rave Up o presso Hellnation. A seguire, la presentazione del gruppo contenuta nell’inserto del 33 giri.Ho scritto per la prima volta dei Wops oltre quarant’anni fa, nell’ottobre 1981, sulle pagine della defunta rivista Il Mucchio Selvaggio, dopo aver ricevuto il loro primo demo. Di sicuro ero stato affascinato dall’idea di una band di Murano, se non altro perché la coesistenza di quattro musicisti punk in quell’isola della laguna di Venezia mi era parsa una specie di prodigio, ma ero rimasto davvero colpito dal loro sound energico e rabbioso, punk tendente all’hardcore brillantemente a metà tra le due tendenze; nel mio breve ma entusiastico commento evidenziai affinità con la coeva scena californiana, osservazione che oggi non mi rimangio ma che reputo un po’ restrittiva, perché i Wops si potevano accostare anche ai migliori gruppi della grande provincia americana, quelli che inevitabilmente vantavano qualche influenza britannica. A renderli esaltanti, però, era soprattutto la qualità della scrittura: canzoni magari non rivoluzionarie ma pregevolissime, superiori e non di poco alla media di quelle di molti colleghi stranieri che, nell’ambito musicale in questione, godevano di riscontri significativi. Non vedevo l’ora che pubblicassero un disco, ma purtroppo non lo fecero mai: diffusero un altro nastro, contribuirono a due raccolte di artisti vari e nel 1983 si dissolsero, lasciandosi alle spalle una serie di eccellenti recensioni (fiore all’occhiello, quella della rivista USA Maximum Rocknroll), una cinquantina di concerti tenuti in massima parte nel Veneto e tanti bei ricordi. Che spreco di talento.
Ci pensavo spesso, all’inaccettabile assenza di un album dei Wops, era proprio diventato un cruccio personale. E il disappunto aumentava quando, offrendogli periodicamente il mio appoggio per confezionarlo riesumando le registrazioni d’epoca, mi rispondevano in modo evasivo. Provai dunque enorme gioia quando nel 2022 il mio ennesimo tentativo – non ci speravo più, ma ormai provarci era un dovere morale – fu seguito prima da un “vediamo” e poi da una foto dei quattro ragazzi oggi sessantenni tutti assieme, convinti della “necessità” – tra virgolette, ma non servirebbero – di realizzare il famoso vinile. Il primo scorcio di 2023 ha così portato giorni di riascolti, di scambi di materiali iconografici, di restauro dei brani immortalati quaranta e più anni prima, di confronti via whatsapp su come definire la scaletta. Da tutto ciò è scaturito questo 33 giri che allinea tutte le incisioni di studio effettuate da Gino, Ermanno, Giovanni e Andrea, più una testimonianza della verve feroce e dissennata che i Wops liberavano sui palchi. Alcuni titoli sono presenti in più versioni anche per consentire confronti, e l’ordine cronologico aiuta a constatare più facilmente i cambiamenti della band, con la progressiva conversione a uno stile più hardcore. Spots è un documento prezioso del punk italiano, ma al di là del valore musicale e storico è tuttora, a quattro decenni dalla separazione del gruppo, un manifesto esplosivo di irrequietezza giovanile e voglia di spaccare il mondo.
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The Wops
R.E.M. (1983)
Il 12 aprile del 1983 vide la luce il primo LP dei poi famosissimi R.E.M. e il vostro giovane cronista, che già conosceva la band, era lì pronto a recensirlo, addirittura come “disco del mese”. Con il senno di poi, trovo quanto scrissi un po’ freddino, ma andò così. Per altri articoli su di loro, basta cliccare qui, qui, qui e qui.Murmur
(I.R.S.)
Secondo l’autorevole parere del calendario, i Sixties si sono conclusi ben tredici anni e mezzo fa. Cronologicamente, almeno, perché dal punto di vista musicale, e più precisamente da quello del rock, essi non sembrano essere mai definitivamente trascorsi, nel senso che ancora oggi esistono numerosissimi artisti che si riallacciano a quelle sonorità così infinitamente ricche di attrattive e di fascino. Il fatto, a pensarci bene, stupisce non poco: gli artisti in questione sono nella maggior parte dei casi meno che ventenni e viene spontaneo chiedersi come alcuni di essi riescano così perfettamente a identificarsi nel sound di un’epoca che non hanno realmente “vissuto”.
L’occasione per parlare ancora una volta di questo recupero di tradizioni, che sarebbe ingiusto definire “revival” (non si tratta di riproporre un “vecchio” tipo di sound, ma di prenderne gli elementi caratterizzanti e di plasmarli grazie alle esperienze moderne), ci è offerta adesso dai R.E.M., un quartetto statunitense (di Athens, la stessa città dei B-52’s) già segnalatosi all’attenzione del pubblico con il singolo Radio Free Europe del 1981 e il 12” EP Chronic Town del 1982, e giunto al primo album con questo elettrizzante Murmur. Il primo accostamento suggerito dall’ascolto del disco è con i Byrds, dai quali i R.E.M. sembrano aver ereditato parecchio; logicamente, il paragone e valido solo per quanto riguarda l’impressione generale suscitata ds determinati brani (ad esempio, l’iniziale Radio Free Europe, Laughing, Catapult, e, a essere sinceri, numerose altre delle dodici della scaletta), specie per via della timbrica del cantante Michael Stipe e dell’uso di certe soluzioni chitarristiche. Il tutto è però arrangiato secondo dettami “new wave”, con schemi ritmici più accentuati e più accurate manipolazioni delle strutture armoniche, ma il sound dei R.E.M. possiede comunque l’impostazione pop e la melodia tipiche degli immortali anni ’60. L’operazione è portata a termine in modo del tutto soddisfacente, e Murmur si rivela, nel complesso, un ottimo LP; certo, qui siamo parecchio lontani dall’estro devastante dei Gun Club, dalla follia degli Shockabilly o dagli esercizi meramente accademici dei Chesterfield Kings, ma ciò non toglie che i R.E.M. meritino il nostro rispetto e la nostra considerazione, oltre l’appellativo, che sembra sempre più appropriato man mano che i solchi si susseguono, di “Byrds degli Eighties”.
(da Il Mucchio Selvaggio n.65 del giugno 1983)
Bay Area punk, 1976-1979
A seguire la vecchissima playlist dedicata al garage punk americano dei Sixties, quella sulla synth/minimal wave britannica del 1977-1981 e quella sulla prima generazione punk di Los Angeles, eccone un’altra di punk californiano dei ’70, focalizzata però sulla scena della Bay Area, che aveva come centro San Francisco e che ovviamente accoglieva anche band di aree più o meno limitrofe.
Avengers – We Are The One
Nuns – Decadent Jew
Crime – Frustration
Mutants – New Dark Ages
Negative Trend – Mercenaries
K.G.B. – Dying In The USA
No Alternative – Johnny Got His Gun
Novak – RU21
Mary Monday – I Gave My Punk Jacket To Rickie
VKTMS – Midget
Readymades – Supergirl
Sleepers – Seventh World
Snuky Tate – New Time
Seizure – Front Line
Tools – Asexuality In The 80s
Insults – Population Zero
(Impatient) Youth – Definition Empty
JJ-180 – AR-L7
Fleshapoids – Electro-Shock
John Vomit & The Leather Scabs – I Suck
Offs – Everyone’s A Bigot
Dead Kennedys – California Uber Alles
Contrazione (1983-1985)
“Costituitisi nella prima metà degli anni ’80, i piemontesi Contrazione si sono distinti per la coerenza e l’impegno con i quali hanno portato avanti il proprio discorso sociopolitico, esprimendosi attraverso un hardcore punk crudo e convulso cui il particolare uso delle voci maschile e femminile conferiva una certa originalità. Estremamente radicale nella sua filosofia anti-establishment, il gruppo ha debuttato con la cassetta (poi ristampata come LP) Contr-Azione/Franti, che vede la partecipazione di Stefano Giaccone dei Franti; in seguito ha contribuito (con un brano tratto dall’album) alla raccolta P.E.A.C.E. Benefit Compilation edita dall’americana Radical e sempre nel 1985 si è sciolto contemporaneamente all’uscita del mini-LP Cineocchio! Storia e memoria (BluBus). Dopo la separazione, il bassista Gianpiero Capra ha proseguito con i Kina, mentre il cantante Sergio Tosato ha messo a frutto la sua esperienza nel campo del free punk fondando i Panico assieme all’ex Franti Vanni Picciuolo”. Così scrissi nell’Enciclopedia del Rock Italianopubblicata dalla Arcana nel 1993, e già il fatto che avessi dedicato ai Contrazione una scheda, invece di limitarmi a una noticina come di norma ho fatto con quanti vantavano una discografia esigua, la dice lunga sul valore che attribuissi alla band (che in tempo reale avevo comunque ben recensito sulle pagine del Mucchio Selvaggio).
Fa quindi piacere che Area Pirata abbia recuperato l’intera produzione ufficiale del gruppo, raccogliendola in un LP (in allegato il codice per il download) con copertina apribile (all’interno, testi e foto). L’album si intitola Cieli rossi sull’Europa, come uno dei quattordici brani che contiene, ed è acquistabile a 20 euro presso www.areapirata.com. Oppure, va da sé, nei migliori negozi specializzati.
Gun Club (1982)
Uscito il 20 settembre 1982, il secondo LP dei Gun Club mi arrivò appena in tempo per essere recensito nel numero di novembre del defunto Mucchio Selvaggio. Lo reputo ancora oggi un capolavoro e, dunque, quanto scrissi all’epoca con tutto l’entusiasmo, la forma legnosa e un pizzico di non tanto giustificata saccenza dei miei ventidue anni non mi meraviglia affatto.
Miami
(Animal)
Abbandonata la Ruby a favore della neonata Animal Records di Chris Stein, i Gun Club tornano su vinile con il loro secondo LP, a seguire lo strepitoso debutto Fire Of Love. La conferma che tutti attendevamo è giunta puntuale e inequivocabile, giacché Miami si rivela un signor disco, valido almeno quanto il suo predecessore, e per di più ricco di interessanti innovazioni: i Gun Club, infatti, danno prova di essere notevolmente maturati, proponendo un sound più curato e policromo, complice probabilmente anche l’attenta produzione di Chris Stein.
A un primo ascolto, Miami evidenzia immediatamente le sue differenze da Fire Of Love, presentando brani nel complesso più pacati e raffinati. I Gun Club, cioè, sembrano avere parzialmente rinunciato all’aggressività e alla voluta grezzezza di molti episodi del primo lavoro a favore di una musica meno violenta, più pulita e più curata negli arrangiamenti ma sempre in grado di trasmettere sensazioni forti e affascinanti. La lezione del Gun Club, come molti di voi (spero) già sapranno, è sostanzialmente rock e si allaccia a molti differenti aspetti dell’ampia tradizione musicale statunitense: punk, rockabilly, country e psichedelia, tanto per citare qualche esempio, confluiscono come per incanto in brani di rara bellezza, nei quali la chitarra secca e graffiante di Ward Dotson domina, assieme alla voce potente e versatile di Jeffrey Lee Pierce; un impasto sonoro dove basso, batteria, steel guitar (strumento tipico del country-rock), piano, percussioni e (in un pezzo) addirittura violino fanno a gara nel costruire efficacissime armonie lanciando un “messaggio” che non può non essere recepito da chi sente sulla pelle il brivido e il feeling del r’n’r. L’album è stupendo dall’inizio alla fine e non credo che gli estimatori (numerosi, a quanto pare) di Fire Of Love avranno difficoltà ad apprezzarlo, nonostante quelle sue novità che, per quanto positive, potrebbero di primo acchito disorientare; la vena e le capacità dei Gun Club, comunque, emergono maggiormente (a mio parere) in composizioni come Carry Home, Run Through The Jungle, Watermelon Man, John Hardy (rilettura di un noto traditional) o Fire Of Love e soprattutto nella conclusiva Mother Of Earth, un capolavoro come pochi. Sì, d’accordo, Miami viene a costare la bellezza di quindici biglietti da mille, ma vi assicuro che, ora come ora, non potreste impiegare la cifra in maniera migliore. I Gun Club hanno tutte le carte in regola per riscuotere il vostro incondizionato consenso, e la presenza di Miami nella vostra discoteca di amante del rock più “vero” è per lo meno doverosa.
(da Il Mucchio Selvaggio n.58 del novembre 1982)