recensioni

Faust’O (1983)

Il 18 marzo del 1983, il responsabile dell’ufficio stampa della Dischi Ricordi di Roma mi consegnò una copia del quinto album (e quarto di canzoni) di Fausto Rossi allora in arte Faust’O, uno dei miei artisti italiani preferiti di quell’epoca (e di altre epoche), del quale volendo potrete leggere altre mie cose qui e qui. Nonostante i tempi molto stretti, riuscii a scrivere “al volo” questa recensione per il numero di aprile del Mucchio Selvaggio. In coda, il pezzo ben più lungo e dettagliato che scrissi per la sua prima e unica ristampa in CD, con una splendida confezione, uscita nel 2015 per la On Records Japan.

Faust’O
(Ricordi)
La storia di Faust’O non è dissimile da quelle di altri artisti, italiani e non: una formazione culturale giovanile all’ombra di Beatles e Rolling Stones, il successivo incontro con le sonorità (“aliene” e semiclandestine, sul finire dei Sixties) di band quali Fugs, Seed o Stooges, e poi l’avvicinamento a personaggi come Lou Reed, David Bowie e Roxy Music. Divenuto, da fruitore che era, anche musicista, Faust’O esordisce nel 1978 con Suicidio, bizzarro ma riuscito connubio di diverse influenze e situazioni: citazioni evidenti dei suoi miti (Bowie e Roxy Music innanzitutto, con il loro feeling decadente), testi polemici e a tratti anche violenti, un sound avvolgente o spigoloso a seconda delle esigenze. Con il successivo Poco zucchero, meno significativo dell’opera prima, le tematiche espressive non mutano di molto, cosa che invece accade nel terzo LP J’accuse… amore mio, in cui l’artista dimostra di avere assimilato lo spirito policromo e cangiante di quel controverso fenomeno denominato new wave. A questo punto, un po’ per il relativo disinteresse del grande pubblico nei suoi confronti, e un po’ per logica necessità di riflessione, l’abbandono delle scene alla ricerca di un ruolo e uno scopo, con il distacco dal gruppo CGD e l’impegno in un progetto che si potrebbe definire sperimentale, un album interamente strumentale dove la ricerca elettronica marcia di pari passo con la creazione di atmosfere delicate e affascinanti. Il 33 giri, prodotto e stampato in proprio, vede la luce nel 1982 (in tiratura limitata di mille copie) con il titolo Out Now.
Il resto è storia d’oggi: Faust’O decide di rientrare nel giro, firma un contratto con la Dischi Ricordi e appronta un nuovo album, intitolato con il suo nome come a voler manifestare chiaramente la sua appartenenza a un altro ciclo di produzioni. Faust’O è un disco sostanzialmente diverso dai precedenti, dai punti di vista sia formale che sostanziale: il suo autore ha lasciato da parte ogni desiderio di rivolta (o, perlomeno, ha smesso di palesarlo) e si è dedicato allo studio disincantato di ciò che accade attorno a lui, facendo scaturire da tali sue osservazioni una serie complessa ed elaborata di immagini tenui, apparentemente sbiadite ma in realtà ricche di vita ed emozioni. Musicalmente parlando, è facile riscontrare una notevole evoluzione, logicamente al passo con i tempi: suoni ovattati, grande uso dell’immancabile Fairlight, ottimi interventi di chitarra (il solito Alberto Radius) e piano, voce sempre all’altezza della situazione a ricamare con abilità parole in grado di consigliare visioni non sempre nitide, ma comunque suggestive. Il canto, naturalmente, è il filo conduttore di tutto l’insieme, che si avvale al 90% dell’uso dell’italiano ma non disdegna l’interferenza di parecchie espressioni straniere (inglesi, francesi e persino spagnole); il risultato è una raccolta di canzoni dotate di grande potenziale comunicativo, che colpiscono profondamente con le loro armonie quasi sempre sommesse, con il loro raffinato lirismo fatto di sentimento. Lo stesso Faust’O, nelle note di copertina, tende a sottolineare come il suo intento sia stato “lasciare che l’interno fluisse, per quanto possibile, senza censure; il lasciare che, parola dopo parola, le immagini prendessero una propria forma senza chiedersi perché o da dove venissero”. In definitiva, un lavoro attuale e interessante, da gustare senza pregiudizi, una volta in più ingiustificati, verso ciò che viene dall’Italia.
(da Il Mucchio Selvaggio n.63 dell’aprile 1983)
 Ascolta, ascolta la vita in fondo al cuore
Nonostante il “1982” apposto sulle etichette dell’edizione originale in vinile, quest’album arrivò nei negozi solo nel primo scorcio dell’anno seguente, a marzo. Sarebbe dovuto uscire nel tardo autunno, poco dopo il 45 giri Ch’an Cha Cha, ma è probabile che i discografici preferirono rinviarlo a giorni più propizi di quelli che precedono il Natale. Del resto, pur essendo abbastanza noto, il Faust’O non ancora tornato Fausto Rossi non era esattamente una star, ed essendo un (per loro) esordiente, alla Ricordi ci tenevano a far bene. O a provarci, almeno. Alla storica etichetta milanese, l’allora ventottenne musicista era giunto con un invidiabile bagaglio di esperienza: un LP per la CGD (Suicidio, 1978) e altri due per la Ascolto di Caterina Caselli (Poco zucchero del 1979 e J’accuse… amore mio del 1980), tutti con brani in italiano, più uno – Out Now, autoprodotto nel 1982 – di taglio sperimentale. Lavori di qualità, che avevano qualificato il loro titolare come una sorta di trait d’union fra la canzone d’autore classica e quella più rock e al passo con i tempi che aveva fra i suoi alfieri David Bowie, Roxy Music, Sparks, Lou Reed e i primi esponenti della new wave, ad esempio gli Ultravox! di John Foxx. Curiosamente, il provincialismo, la diffidenza nei confronti del nuovo e l’arretratezza bigotta che dominavano la nostra scena “ufficiale” non avevano impedito a Faust’O di suscitare attenzione e di guadagnare un certo spazio. Per spiccare il volo occorrevano “solo” materiale inedito di alto livello e un minimo di tolleranza in più da parte dell’artista per i meccanismi promozionali. Il caso volle che nel 1983 non mancassero, né l’uno né l’altra.
Fu proprio in questo periodo che conobbi di persona Fausto. Non potendo dedicargli altro se non un’entusiastica recensione, mi offrii di fare da spettatore alle interviste con altri, soprattutto radio private, fissate in un pomeriggio a Roma. Avvertendo il gap dei sei anni in meno e della sua fama di tipo poco malleabile, nonché della sua condizione di mio piccolo mito, provavo un po’ di timore reverenziale, ma le chiacchiere scambiate prima del tourbillon di incontri con i miei colleghi rivelarono sintonie e simpatie. Fu una bella (mezza) giornata: lo ricordo brillante, calmo e fin troppo paziente nel cercare di spiegare il suo disco e il suo mondo a interlocutori che per lo più davano l’impressione di essere lì per caso. Non il massimo, ok, ma quantomeno la sua musica avrebbe girato di più nell’etere e magari qualche articolo – all’epoca, la stampa aveva il suo peso – avrebbe aiutato a diffondere il Verbo. Faust’O era un album ispiratissimo e molto ben realizzato, perfetto per una platea d’élite ma in grado di lasciare il segno anche approcciandolo in maniera istintiva, senza grandi letture estetico-culturali: perché mai non avrebbe dovuto ottenere successo?
Il destino, però, aveva altri piani. Al di là del valore del progetto e della suggestiva immediatezza delle canzoni, Faust’O rimaneva una figura aliena e destabilizzante, comunque poco propensa a concedersi. Furono più che eloquenti, in tal senso, le date del breve tour primaverile, prive di qualsivoglia ammiccamento: nella mia memoria rimane impressa quella del 19 maggio, nella storica cornice del Piper Club di Roma, all’insegna di una passionalità quantomai austera e glaciale che aveva il suo culmine nella (magnifica) trasfigurazione di Ch’an Cha Cha in un’avvolgente, torbida litania “alla John Cale” di quasi dieci minuti. Roba da artisti autentici e non da popstar: al diavolo i compromessi, viva il diritto di assecondare la propria musa. Infatti, il contratto con la Ricordi non avrebbe avuto seguito e due anni e mezzo dopo Faust’O si sarebbe esibito in un’altra metamorfosi con le sei tracce (in inglese) del Love Story – il disco del congedo dall’identità parallela – edito non da una major bensì dalla Target di Angelo Carrara.
Qualcuno non sarà d’accordo, compreso forse lo stesso Fausto, ma questo LP – senza titolo, si presume per sottolinearne la natura di manifesto di intenti se non di secondo inizio – è il massimo capolavoro della “fase Faust’O” e una delle pietre miliari della new wave nazionale. Un disco di notevole maturità, oltre che proiettato verso il futuro (basti pensare al Fairlight: chi lo usava, in Italia, nel 1982?), che oggi viene finalmente consegnato al mercato in veste digitale, e con un suono che gli rende giustizia molto più di quanto avesse fatto illo tempore il poco dinamico e impastato vinile della Ricordi. Un bel regalo, si spera, per i sessant’anni del nostro antidivo, compiuti proprio il giorno – bizzarra coincidenza, della quale mi sono accorto solo a posteriori – in cui mi sono trovato a stendere queste righe di doverosa celebrazione.
(dal libretto della ristampa in CD)

Categorie: presentazioni, recensioni | Tag: | Lascia un commento

Dead Cat In A Bag

Di tanto in tanto mi piace recuperare tutto quello che ho scritto in passato di band/artisti italiani (e non) più o meno di nicchia, perché l’obiettivo primario di questo blog è diffondere cultura musicale anche quando ciò comporta meno visualizzazioni di quelle raccolte quanto gli argomenti sono più popolari (triste faccenda, ma va così). In questo caso sotto gli spot finiscono i torinesi Dead Cat In A Bag, che nel settembre 2022 hanno pubblicato in CD un quarto album di cui, a differenza di quelli che l’hanno preceduto, non ho avuto modo di occuparmi su carta; l’ho fatto allora qui, in parallelo all’uscita in vinile, recuperando per completezza anche le tre vecchie recensioni e scoprendo, rileggendole, di avere usato in tutte l’aggettivo “cavernoso” e di essere ricorso almeno una volta all’autocitazione.

 

We’ve Been Through
(Gusstaff)
Anche se si tratta di una citazione letteraria (Mark Twain) e il trio torinese si impegna nel cercare di convincere che il suo nome non è sinistro, l’immagine di un gatto morto in una borsa non evoca certo sensazioni positive, specie quando si accoppia a una musica dal sapore spesso minaccioso. È in ogni caso un viaggio vivace e appassionante, quello proposto dalla band, tanto nei tre album messi in fila tra il 2011 e il 2018, quanto nei dieci nuovi brani – otto originali e due cover, il tradizionale Wayfaring Stranger e Hunter’s Lullaby di Leonard Cohen – allineati in questo quarto lavoro, forse il migliore del lotto, nel quale il gruppo è rimasto fedele al suo ormai consolidato stile: un’Americana avvolta in arie noir nella quale confluiscono influenze balcaniche e latine e che, a dispetto del suo aspetto apparentemente scarno, si avvale dell’uso di vari strumenti all’occorrenza inusuali maneggiati dai tre titolari e da un ampio stuolo di ospiti, con il canto basso e roco di Luca “Swanz” Andriolo a fungere da elemento di raccordo. Livido ma ricco di colori, per lo più ritmato ma in qualche circostanza pacato e avvolgente, il quadro sonoro folk-country-blues-bandistico dipinto dai Dead Cat In A Bag ha tutto ciò che occorre per affascinare profondamente, con buona pace di chi non guarderà la luna bensì il dito: ovvero, le affinità con Tom Waits, Nick Cave, Mark Lanegan, Calexico, Will Oldham, Micah P. Hinson, Howe Gelb, Black Heart Procession e chi più ne ha più ne metta.

Lost Bags
(Viceversa)
Un gran bel ritorno in pista, dopo alcuni anni di pausa, per la gloriosa Viceversa di Catania: il primo album dei Dead Cat In A Bag, nati come duo di folk deviato e poi evolutisi in una compagine assai più ampia, è uno di quei dischi che difficilmente lasciano indifferenti, vuoi per la voce cavernosa di Luca Andriolo, vuoi per la particolarità di musiche ben poco solari e parecchio “cinematografiche” nelle quali confluiscono strumenti acustici, elettrici, elettronici e “trovati per caso”. Le basi rimangono folk/blues, ma le varie contaminazioni – con il Messico, con i Balcani, con chissà quale terra che non esiste – collocano l’ensemble torinese in una twilight zone dove vagano, inquieti, gli spiriti di Tom Waits e Giant Sand, Nick Cave e Black Heart Procession, Calexico e Will Oldham, Vinicio Capossela e Bachi da Pietra. Il tutto accompagnato da una confezione in bianco/nero altrettanto suggestiva, che odora di polvere e amplifica gli echi di un passato impresso più nel DNA che nella memoria.
(da Il Mucchio Selvaggio n.682 del maggio 2011)

 

Late For A Song
(Viceversa)
A seguire il Lost Bags del 2011, i Dead Cat In A Bag hanno confezionato un‘altra pregevole raccolta di canzoni all‘insegna di un folk per lo più notturno e straniante, i cui toni scuri sono enfatizzati dal canto cavernoso e sofferto. Per il gruppo torinese un nuovo viaggio fra cantautorato essenziale, sonorità bandistiche, atmosfere cinematografiche, blues, country, Messico e Balcani, che al confronto con il primo album ha guadagnato in consistenza e sfumature senza perdere in genuinità e ispirazione.
(da Blow Up n.193 del giugno 2014)

 

Sad Dolls
And Furious Flowers
(Gusstaff)
Giunti al terzo capitolo di una vicenda avviata sette anni fa, i Dead Cat In A Bag ribadiscono le qualità della loro formula, un folk-rock dai molteplici riferimenti geografici che evoca suggestioni cinematografiche e teatrali e che alla luce del sole preferisce le tenebre; un sound surreale ma a suo modo seducente, di base elettroacustico ma punteggiato di elettronica e strumenti inusuali oltre che marchiato da un canto in inglese ruvido e cavernoso, che si muove in una twilight zone nella quale sono riconoscibili i profili spettrali di Giant Sand e Black Heart Procession, Calexico e Tom Waits, Bachi da Pietra e Vinicio Capossela. Il materiale è autografo, con le sole eccezioni di una efficace cover di Venus In Furs dei Velvet Underground e di una The Clouds che accoppia un testo di Shakespeare a una musica ispirata da Domenico Modugno; c’è di che rimanere spiazzati ma è uno straniamento positivo, ricco di stimoli, a tratti persino inebriante nella sua malinconica e pur sinistra godibilità.
(da Blow Up n.241 del giugno 2018)

Categorie: recensioni | Tag: , | Lascia un commento

Maurizio Baiata – Rock Memories

A volte leggo libri quando ormai è trascorso troppo tempo dall’uscita per recensirli su una rivista. Meno male che, se voglio comunque scriverne perché è cosa buona e giusta, ho il mio blog…

Saranno gli anni che inesorabilmente passano, con relativo accrescersi del desiderio di lasciare una traccia in qualche modo riassuntiva del proprio passaggio su questa terra, ma tutti noi che abbiamo avuto la fortuna di vivere le epoche auree del rock – fino ai tardi anni ’90, diciamo – ci stiamo dedicando al recupero di parti più o meno ampie dei nostri archivi, alle quali aggiungere ricordi, contestualizzazioni al presente, commenti a posteriori. Da quasi un decennio io lo sto facendo qui su “L’ultima Thule” (per ora: in futuro, si vedrà), ma negli ultimi tempi vari colleghi hanno aperto il baule della memoria per trasferirne un tot di contenuti in un libro, scegliendo le impostazioni più diverse; ci sta, eccome, anche se i soliti poveri di spirito – i frustrati che nella vita non hanno mai fatto nulla di “importante” e godono nel criticare chi qualcosa l’ha fatto – parleranno di autoreferenzialità se non di onanismo.

Alla corposa lista si è ora aggiunto Maurizio Baiata, nome che chiunque seguisse il rock negli anni ’70 non può avere presente, per l’attività come conduttore radiofonico e come giornalista sulla carta stampata: Ciao 2001, Nuovo Sound, Muzak, Gong e Stereoplay alcune delle testate sulle quali è uscito (tanto) materiale a sua firma. L’eterno ragazzo ne ha poi combinate molte altre in campo musicale e non, ma questo suo Rock Memories – Scritti ribelli e sinronicità di un giornalista musicale (Verdechiaro Edizioni, pp.350; € 23,00 www.verdechiaro.com) si concentra su un periodo specifico, quello dal 1970 al 1974, offrendo come “bonus” un’intervista del settembre 1980 a David Bowie: articoli, interviste e rubriche apparsi sul settimanale Ciao 2001, imprescindibile strumento di informazione su rock (e dintorni) dell’epoca. I testi sono stati editati in misura maggiore o minore a seconda dei casi ma sono in sostanza quelli di allora, come è possibile verificare confrontandoli con le riproduzioni delle pagine originali a volte inserite. Con lodevole onestà intellettuale, l’autore ammette le piccole ingenuità formali figlie della giovane età e del momento storico, rivelando pure quali pezzi sono pressoché intonsi e quali sono stati, al contrario, riveduti e corretti. Il lavoro è notevole e di grande interesse, sia perché restituisce un quadro fedele di come fosse in linea di massima la scrittura rock nell’Italia dei Seventies, sia perché sfata la leggenda che Ciao 2001si occupasse solo di mainstream e trascurasse gli artisti poco noti: ok, qui si può ovviamente leggere di stelle come Joe Cocker, Doors, Black Sabbath, Emerson Lake & Palmer, King Crimson, Frank Zappa e Santana, ma anche di High Tide, Amon Düül II, Shawn Phillips, Third Ear Band, Can, Faust, Magma, Tim Buckley o John Cale (roba “da iniziati”, insomma), oltre che di Miles Davis, di Karlheinz Stockhausen, dei Weather Report e di italiani non allineati quali Franco Battiato, Claudio Rocchi o Angelo Branduardi. Maurizio Baiata era uno che non si accontentava del “classico” ma amava andare alla ricerca di vie “alternative” e non a caso di Ciao 2001 era uno dei miei preferiti; qualche pezzo lo ricordavo ma altri non mi erano mai capitati davanti e, devo ammetterlo, un po’ mi sono emozionato ricordando il me dodici/tredicenne per il quale lui – che di anni ne aveva appena una decina di più – era una specie di guru, un santone che dispensava il bene prezioso della conoscenza.

Un bellissimo viaggio in un passato mitico e glorioso del quale si attende la già annunciata seconda tappa. Non vedo l’ora, sul serio.

Categorie: recensioni | Tag: , | 1 commento

Gun Club (1982)

Uscito il 20 settembre 1982, il secondo LP dei Gun Club mi arrivò appena in tempo per essere recensito nel numero di novembre del defunto Mucchio Selvaggio. Lo reputo ancora oggi un capolavoro e, dunque, quanto scrissi all’epoca con tutto l’entusiasmo, la forma legnosa e un pizzico di non tanto giustificata saccenza dei miei ventidue anni non mi meraviglia affatto.

Miami
(Animal)
Abbandonata la Ruby a favore della neonata Animal Records di Chris Stein, i Gun Club tornano su vinile con il loro secondo LP, a seguire lo strepitoso debutto Fire Of Love. La conferma che tutti attendevamo è giunta puntuale e inequivocabile, giacché Miami si rivela un signor disco, valido almeno quanto il suo predecessore, e per di più ricco di interessanti innovazioni: i Gun Club, infatti, danno prova di essere notevolmente maturati, proponendo un sound più curato e policromo, complice probabilmente anche l’attenta produzione di Chris Stein.
A un primo ascolto, Miami evidenzia immediatamente le sue differenze da Fire Of Love, presentando brani nel complesso più pacati e raffinati. I Gun Club, cioè, sembrano avere parzialmente rinunciato all’aggressività e alla voluta grezzezza di molti episodi del primo lavoro a favore di una musica meno violenta, più pulita e più curata negli arrangiamenti ma sempre in grado di trasmettere sensazioni forti e affascinanti. La lezione del Gun Club, come molti di voi (spero) già sapranno, è sostanzialmente rock e si allaccia a molti differenti aspetti dell’ampia tradizione musicale statunitense: punk, rockabilly, country e psichedelia, tanto per citare qualche esempio, confluiscono come per incanto in brani di rara bellezza, nei quali la chitarra secca e graffiante di Ward Dotson domina, assieme alla voce potente e versatile di Jeffrey Lee Pierce; un impasto sonoro dove basso, batteria, steel guitar (strumento tipico del country-rock), piano, percussioni e (in un pezzo) addirittura violino fanno a gara nel costruire efficacissime armonie lanciando un “messaggio” che non può non essere recepito da chi sente sulla pelle il brivido e il feeling del r’n’r. L’album è stupendo dall’inizio alla fine e non credo che gli estimatori (numerosi, a quanto pare) di Fire Of Love avranno difficoltà ad apprezzarlo, nonostante quelle sue novità che, per quanto positive, potrebbero di primo acchito disorientare; la vena e le capacità dei Gun Club, comunque, emergono maggiormente (a mio parere) in composizioni come Carry Home, Run Through The Jungle, Watermelon Man, John Hardy (rilettura di un noto traditional) o Fire Of Love e soprattutto nella conclusiva Mother Of Earth, un capolavoro come pochi. Sì, d’accordo, Miami viene a costare la bellezza di quindici biglietti da mille, ma vi assicuro che, ora come ora, non potreste impiegare la cifra in maniera migliore. I Gun Club hanno tutte le carte in regola per riscuotere il vostro incondizionato consenso, e la presenza di Miami nella vostra discoteca di amante del rock più “vero” è per lo meno doverosa.
(da Il Mucchio Selvaggio n.58 del novembre 1982)

Categorie: recensioni | Tag: , , | 4 commenti

Serj Tankian (2007)

Quindici anni fa il cantante dei System Of A Down pubblicava il primo album a suo nome, che avrebbe in seguito avuto un particolare e intrigante adattamento dal vivo (come si può leggere qui). All’epoca, ne scrissi in questi termini.

Elect The Dead
(Reprise)
A scatola chiusa, cioè senza averne ascoltato neppure una nota, più d’uno potrebbe osservare che, nell’attuale bagarre discografica di un album da solista di Serj Tankian non si sentisse esattamente la mancanza. C’è però da rammentare che i System Of A Down, dei quali l’americano di origini armene è frontman e carismatica icona, non producono dischi da oltre due anni e che sembrano al momento essere in ibernazione, e dunque perché non considerare Elect The Dead come un prodotto sostitutivo di quello che la band madre ci avrebbe di norma proposto al massimo nel 2008? Fin troppo facile farlo, poi, visto come i suoi dodici episodi – dove Tankian suona in pratica tutti gli strumenti, batteria esclusa – rimandino direttamente ai SOAD e alle loro alternanza di energiche sfuriate e momenti nei quali a prendere il sopravvento sono soluzioni evocative di vago sapore etno; dei SOAD, tuttavia, nel complesso meno tesi e aggressivi oltre che più attenti alle sfumature, ma sempre caratterizzati da un approccio canoro – solenne e assieme un po’ stridulo – a dir poco inconfondibile. In ogni caso una prova abbastanza ispirata, al di là di qualche caduta di tono e qualche stucchevolezza.
(da Il Mucchio Selvaggio n. 641 del dicembre 2007)

Categorie: recensioni | Tag: | Lascia un commento

Blog su WordPress.com.