recensioni

Soundgarden (1994)

Nello stesso giorno di The Downward Spiral dei Nine Inch Nails vide la luce un’altra pietra miliare del rock (non solo) americano (non solo) degli anni ’90, il quarto album dei Soundgarden. Che recensii in tempo reale con queste parole.
Superunknown
(A&M)
Fanno riflettere, album come Superunknown, su quanto bizzarro sia questo music business che oggi esalta ciò che solo ieri sarebbe stato accusato di obsolescenza. Sui corsi e ricorsi del rock, che (ri)portano ciclicamente in auge fenomeni dati per morti e sepolti e rivalutano personaggi cui un anno prima si guardava al massimo con gelida commiserazione. Su come un bravo artista abbia bisogno, per raggiungere la meritata affermazione, anche di trovarsi al posto giusto al momento giusto, o magari di essere coinvolto – non necessariamente per propria volontà – in un trend in grado di riscuotere attenzioni di massa.
Senza le varie menate su Seattle, sul grunge e sul rock alternativo, i Soundgarden non sarebbero mai approdati alla A&M. Non avrebbero forse inciso Louder Than Love e Badmotorfinger, e sicuramente non avrebbero confezionato un capolavoro come Superunknown. Capolavoro di ispirazione, di equilibrio formale e di intensità emotiva, anche se non di invenzione: troppo stretti i suoi legami con i primi odiati e ora amati Seventies, con i Led Zeppelin, con storie di due decenni fa. A quelle storie, Chris Comell e compagni hanno restituito energia e entusiasmo; senza stravolgerne l’essenza le hanno tirate a lucido, attualizzate, rivitalizzate, generando un manifesto di moderno hard rock tra i più efficaci e affascinanti di questi pur ricchi anni ‘90. Un rock duro che sa essere feroce, idilliaco e visionario. Un rock che urla, geme, gode e ferisce. Insomma, l’asso (di cuori?) mancante perché Seattle veda trasformato in poker il suo tris di Nirvana, Pearl Jam e Alice In Chains.
(da AudioReview n.138 del maggio 1994)

 

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Nine Inch Nails (1994)

Col senno di poi è facile parlare di dischi epocali, ma farlo in tempo reale espone al rischio di quelle che, in linguaggio tecnico, si è soliti definire “figure di merda”. Trent’anni fa, nel recensire l’album più classico dei Nine Inch Nails, mi esposi a quel rischio scrivendo quello che pensavo e affibbiandogli un “9”; direi che mi andò bene.

The Downward Spiral
(TVT/BMG)
Non per aderire alla pratica purtroppo dilagante del sensazionalismo a ogni costo, ma questo The Downward Spira1 rischia di divenire uno degli eventi discografici dell’anno: uno di quegli album che al di là dei risultati di vendita ottenuti (che saranno comunque ragguardevoli) suscitano la morbosa curiosità della stampa, dividono la platea nelle opposte schiere di detrattori e fan e generano loro malgrado una ridda di imitazioni più o meno riuscite. Il tutto, va sottolineato, senza inventare formule inedite, ma limitandosi ad amalgamare elementi già noti in un pirotecnico collage di ritmi frenetici, avanguardie, stravaganze, elettricità, elettronica, distorsioni e perversioni melodiche che si rifanno all’electro-pop “industrializzato” del fortunatissimo Pretty Hate Machine così come ai deflagranti estremismi del successivo mini-LP Broken.
Il signor Trent Reznor ha insomma trovato il modo di equilibrare gli stimoli della sua Musa folle e corrotta, come chiaramente espresso dalle quattordici tracce di questo torbido e imprevedibile The Downward Spiral: un album in grado di ferire con le sue ruvidezze rumoriste e i suoi testi al vetriolo, ma capace anche di regalare scampoli di (allucinata) armonia e suggestioni non necessariamente intrise di negatività. E persino, confermando una volta in più come gli anni ‘90 e l’ascesa del crossover abbiano abbattuto molti dei muri che separavano il mainstream dall’a1ternativo, di scalare le classifiche. Strano, ma vero. Lo avreste mai creduto possibile, per un dichiarato estimatore di Throbbing Gristle, Coil e Foetus che ha trasformato in dimora e studio di registrazione la villa che fu di Sharon Tate?
(da AudioReview n.138 del maggio 1994)

 

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Eric Andersen

Coltivo da anni, un po’ gelosamente, un grande amore per Eric Andersen, cantautore americano che vanta una carriera lunga sei decenni testimoniata da una trentina di dischi di grande qualità. L’occasione per ricordarlo mi è stata offerta dalla recente uscita di Mingle With The Universe, libro di Marco Fazzini e Roberto “Jacksie” Saetti edito da Agenzia X, una bella raccolta (bilingue) di saggi – opera di diversi autori italiani e stranieri – su vari aspetti della scrittura dello stesso Andersen, introdotta da un’estesa, illuminante intervista all’artista e arricchita da testi e fotografie. Uno dei saggi è firmato da Paolo Vites, che nel 2018 aveva firmato assieme a Roberto “Jacksie” Saetti un altro libro, Ghosts Upon The Road, nel quale tutta la produzione di Andersen è analizzata e commentata con attenzione e passione. Sì, ok, sembra strano che a una figura in fondo (e purtroppo) “di culto” siano stati dedicati qui in Italia ben due volumi, ma il rapporto di Andersen con il nostro paese è solido e significativo (basti pensare alla lunga collaborazione con Michele Gazich) e quindi è giusto così.

Mingle With The Universe si può acquistare nelle librerie o presso il sito della casa editrice, mentre Ghosts Upon The Road va richiesto direttamente agli autori (vitespaolo@gmail.com e jacksie1956@gmail.com). A mo’ di suggello, recupero la mia recensione pubblicata lo scorso anno, contemporaneamente all’uscita del disco, dell’ottimo album live registrato (in Italia!) nel 2019.

Foolish Like The Flowers
(Appaloosa)
Figura-cardine della storica scena del Greenwich Village (il suo primo LP, su Vanguard, è del 1965), Eric Andersen ha da tempo un gran bel rapporto con l’Italia, come ulteriormente ratificato da questo live inciso a Pavia nel novembre 2019: un live non in solitudine, nel quale alla chitarra (o alle tastiere) e alla voce calda e magnetica dell’oggi ottantenne cantautore americano – ha festeggiato il compleanno il 14 febbraio, giorno dell’uscita del disco – si affiancano le percussioni di Cheryl Prashker, il dobro di Paolo Ercoli, i cori della moglie Inge e il violino d’eccezione di Scarlet Rivera, già con Dylan nella Rolling Thunder Revue. Quasi mai “rock” – fanno eccezione la Dusty Box Car Wall d’apertura e la ruvida You Can’t Relive The Past, scritta a quattro mani con Lou Reed – ma sempre ricche di colori e di intensità, le performance vanno a comporre una carrellata di straordinaria bellezza, anche se purtroppo un po’ concisa, della carriera di questo veterano del folk-rock, tra gemme Sixties (oltre a Dusty Box Car Wall, la celebre Violets Of Dawn e la title track), due capolavori ’70 dal magnifico Blue River (Wind And Sand e Sheila) ed episodi più recenti, tra i quali non si può non citare l’evocativa, onirica Hills Of Tuscany.
(da Blow Up n.298 del marzo 2023)

 

 

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Annie Barbazza (2020)

Ogni tanto trasgredisco alla (mia) regola di non ripubblicare on line miei articoli usciti in origine su carta dopo il 2017. In questo caso, visto che è stato appena ristampato ed è tornato così disponibile, ho pensato fosse più che giusto proporre la recensione di questo splendido album di quattro anni fa, esordio vero e proprio di un’artista italiana – ma cittadina del mondo – di livello altissimo, che al tempo feci “disco del mese” di AudioReview.
Vive
(Dark Companion)
Multistrumentista, compositrice e cantante di straordinarie doti, Annie Barbazza è destinata a un futuro glorioso; non in questa Italia di pusillanimi, sistematicamente dedita a ignorare – se non affossare – il bello ed esaltare per lo più mediocri e abomini, ma nel più ampio e gratificante giro internazionale. Greg Lake aveva proprio visto giusto quando volle prenderla sotto la sua ala protettiva e produrle una ricca serie di brani di ELP e King Crimson interpretati in origine da lui (si veda il Moonchild uscito nel 2018, una gemma con la voce di Annie affiancata solo dal pianoforte di Max Repetti), e chissà cos’altro sarebbe accaduto se più di tre anni fa il musicista britannico non si fosse congedato troppo presto dal mondo. L’oggi ventiseienne milanese non si è comunque persa d’animo e ha proseguito per la sua strada, inanellando collaborazioni (recente e significativa quella come frontwoman e organista della North Sea Radio Orchestra per l’omaggio a Robert Wyatt Folly Boloney) e dedicandosi a organizzare questo autentico esordio a suo nome, che per essere un lavoro solistico è – si perdoni l’osservazione scherzosa – parecchio affollato: ben undici (più Lake, produttore della conclusiva Boîte á Tisanes) gli ospiti che si avvicendano nelle tredici tracce, e nel parterre de rois spiccano nomi certo altisonanti come quelli di Daniel Lanois, Fred Frith, John Greaves, Paolo Tofani e Lino Capra Vaccina. Non si deve però ritenere che tali presenze siano i soliti specchietti per le allodole o imprescindibili sostegni ai contenuti del disco: i loro interventi sono preziosi ma di contorno e gli spot vanno puntati solo sulla titolare, che ha firmato dieci brani (gli altri tre sono di John Greaves, di Paul Roland e ancora di Greaves ma assieme a Peter Blegvad: quest’ultimo è una cover di How Beautiful You Are, tratta dall’eccellente The Naked Shakespeare dello stesso Blegvad, AD 1983) e che nelle registrazioni non si è concentrata solo sul microfono ma si è anche destreggiata tra una mezza dozzina di diversi strumenti.
Inciso prestando particolare attenzione alla qualità sonora, Vive è un disco coraggiosamente avventuroso che rifugge le facili soluzioni “pop” per addentrarsi con passo sicuro in territori al confine tra progressive non sinfonico e libero da rigorosi vincoli stilistici, avanguardia che non respinge i non adepti al culto, folk teso alla trascendenza, canzone “alta”, echi classicheggianti. Anche se non cercano mai il consenso immediato, le melodie sanno imporsi ugualmente con genuina autorevolezza trovando spazio nelle trame pressoché sempre eteree e lente affrescate da chitarre, basso, pedal steel, percussioni, vibrafono, autoharp, oboe, harmonium e altre tastiere, che inchiodano con un magnetismo austero ma non glaciale e affascinano con atmosfere crepuscolari qua e là squarciate da lampi di luce. L’autentica protagonista è tuttavia la voce della Barbazza, in grado di toccare vette di poliedrico, straordinario lirismo che ben si conciliano con la compostezza nobile e nient’affatto “ingessata” del sound. Sconsigliato, naturalmente, affrontare l’ascolto con leggerezza: l’album è impegnativo e per sprigionare appieno la sua forza ammaliatrice richiede una concentrazione e una particolare predisposizione che potrebbero addirittura non bastare per coglierne totalmente l’incanto. Lo si approcci allora con il rispetto di norma si riserva alle opere di spessore, augurandosi di entrarci in sintonia; qualora ci si riesca, si può essere sicuri che suggestioni ed emozioni si rinnoveranno lungamente a ogni nuovo passaggio.
(da AudioReview n.418 del marzo 2020)

 

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Pariah (1983)

Una band non proprio conosciutissima che però realizzò questo notevole album, un’autentica gemma del punk/hardcore californiano della prima metà degli anni ’80. Ovviamente, lo recensii in tempo reale, per poi recuperare quanto scritto nel mio libro No Control – Storie di hardcore punk californiano, ancora disponibile.
Youths Of Age
(Posh Boy)
Ogni tanto, per fortuna, il punk californiano torna a far sentire la sua vera voce, quella immune dalle stereotipate contaminazioni hardcore e derivata dallo spirito originario che per anni ha guidato le giovani formazioni di Los Angeles e San Francisco; il discorso, naturalmente, si riferisce soltanto alle questioni strettamente musicali che, del resto, sono quelle più meritevoli di attenzione e considerazione visto che quelle ideologiche, sulla scia dell’hardcore, sono praticamente scomparse, degradate da un’attitudine modaiola che prevede al massimo i soliti slogan di dubbia sincerità.
Youths Of Age è il debutto a 33 giri dei Pariah, quartetto di Martinez già balzato agli onori della cronaca per le sue partecipazioni alle raccolte Not So Quiet On The Western Front e Rodney On The ROQ Vol.III, ed è, vale la pena di precisarlo subito, uno dei più validi ed eccitanti album messi in commercio in California nel 1983. Dal punto di vista sonoro, i Pariah si avvalgono dell’intelligente e trascinante fusione di diverse influenze: da un lato la rapidità esecutiva (non sfruttata, però, in tutte le composizioni) dell’hardcore, dall’altro una cura particolare per soluzioni strumentali e vocali di scuola Adolescents, il tutto inserito nel contesto caldo e coinvolgente del più tipico sound punk statunitense. I brani sono comunque, nel complesso, veloci e aggressivi, ricchi di estrose divagazioni ritmiche, di esaltanti chitarre solistiche, di soluzioni canore potenti e articolate con una timbrica ardente ed espressiva (niente a che vedere, quindi, con le solite parole sputate senza costrutto da vocalist-urlatori di scarse qualità), di feeling inequivocabilmente vivo e non artefatto.
Dei nove episodi che compongono Youths Of Age, alcuni vantano livelli di assoluta eccellenza: è il caso di Inside Looking Out, White Line e Running For Cover, strepitosi esempi di come persino le trame hardcore possano essere melodiche e non dissonanti, ma anche le altre tracce veloci e violente (Blind Resistance e Passion And Pride) non sfigurano poi tanto al raffronto con le precedenti; Youths Of Age e All The Kings Men sono invece brani più vicini alle punk ballad vecchia maniera, mentre Faith In Mercy e la bellissima Striking Back alternano strutture pacate e perverse a esplosioni di rabbia e rapidità. Un gran disco, insomma, che fa ancora sperare per il futuro della scena californiana, riportandoci con la mente a un periodo in cui le band punk avevano ciascuna una propria identità e non erano tutte confuse in un disgustoso marasma di sesso, caos e violenza come invece, con poche eccezioni, accade oggi.
(da Il Mucchio Selvaggio n.73 del febbraio 1984)

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