Mi è giunta voce che presto arriverà sul mercato la ristampa – la prima in assoluto – di quest’oscuro album pubblicato nel 1981. Questa la mia recensione in tempo reale, positiva anche se con qualche comprensibile riserva perché in quegli anni girava così tanta roba incredibile – ben più all’estero che qui da noi, certo – che veniva spontaneo essere molto esigenti. Chissà quante cazzate saranno scritte, su questo Monitor, dai tanti che oggi blaterano di new wave italiana senza realmente sapere cosa fosse.
Monitor
(CBO/EMI)
Leo Nero non è, come molti potrebbero pensare, uno dei tanti giovani musicisti che tentano solo ora la scalata al successo: faceva infatti parte – il suo nome è Gianni Leone – del Balletto di Bronzo, uno dei più importanti complessi “pop” italiani dei primi anni ‘70, e dopo lo scioglimento ha proseguito per la sua strada, affrontando nuove esperienze negli Stati Uniti, prima a New York (l’LP “Vero”, 1977, e il singolo “Fremo”, 1978) e poi in California. Proprio a Hollywood nascono le premesse per la realizzazione di Monitor, album-manifesto del nuovo corso di Leo Nero, un sound da lui stesso definito “il beat degli anni ‘80”. Le due facciate del disco sono assai diverse: nella prima Leo si fa accompagnare dalla Optical Band, formazione comprendente, fra gli altri, il chitarrista Steve Hufsteter (Quick) e il batterista Charlie Quintana (Plugz); nella seconda, il nostro dà sfoggio del suo talento tastieristico avvalendosi solo dell’aiuto di una rhythm box. Tutti i brani del primo lato, eccetto Strada(precedentemente edito a 45 giri, una canzone molto ritmata e incisiva nella quale si può notare l’influenza degli Screamers, con i quali Leo ha collaborato) e Piangi con me (facciata B del 7”, moderna riedizione di un’hit dei Rokes), sono canzoni strumentali ben costruite e piuttosto semplici, gradevoli ma nulla più. Nel lato B trovano posto sei composizioni tra le quali spiccano l’ipnotica Volpe robot (con un attacco “rubato” a Jocko Homo dei Devo e con un cantato freddo e metallico), la veloce e ossessiva No No No e la solenne Tell Me Why. Gli altri sono pezzi lenti, dalle sonorità rarefatte, troppo comuni per riuscire a colpire con particolare intensità.
Il momento migliore del lavoro è senza dubbio Strada, dove la simbiosi fra musica e testi in italiano è perfetta; nell’album il tentativo di fondere un tipo di sound tipicamente mediterraneo (dal quale Leo, visti i suoi trascorsi, non poteva assolutamente prescindere) con alcuni elementi caratteristici del nuovo rock è riuscito, ma il risultato, nonostante alcuni spunti interessanti, non è del tutto convincente. In ogni modo la proposta di Leo Nero è da lodare, visti anche la lucidità e il professionismo con i quali è stata messa in atto: ora restano solo da attendere con speranza gli sviluppi futuri.
(da Il Mucchio Selvaggio n.43 del luglio/agosto 1981)