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Springsteen: il finto live

Da ormai un po’ di tempo rilevo un accresciuto interesse per le vicende del giornalismo musicale italiano. C’è chi scrive libri sull’argomento, chi pubblica articoli e interviste di approfondimento, chi rivolge direttamente ai protagonisti la fatidica domanda “ma come andò con…” (e a me, che in oltre quarant’anni di professione mi sono trovato in mezzo a molte storie in effetti interessanti, capita spessissimo). Allora, prima che la memoria cominci a perdere colpi e prima che un qualche tipo di flagello possa distruggere il mio prezioso archivio, ho pensato di fissare i miei ricordi (con relativi documenti probanti, se ci sono) in una serie di pezzi che interesseranno magari una platea ristretta ma che saranno utili da inoltrare ogni volta che qualcuno mi chiederà per l’ennesima volta di eventi che ho vissuto in prima persona; e che senza dubbio saranno apprezzati da ogni eventuale cultore/studioso che volesse approfondire la materia.

Ma come andò? (9)
Questa è una vicenda di altri tempi, tempi pre-Internet, che mai e poi mai potrebbe avvenire oggi. Mi correggo: potrebbe avvenire di nuovo in modo diverso, ma oggi si esaurirebbe in un attimo e non farebbe lo stesso scalpore che fece allora. Di essa fui quasi solo testimone: quasi nel senso che prima di attuarla mi fu chiesto un parere e io, che da giovane ero molto più “ingessato” di quanto non sia da anziano, risposi che di sicuro avrebbe potuto essere divertente, ma anche ben poco rispettosa nei confronti dei nostri lettori; per la cronaca, si parla dei lettori del defunto Mucchio Selvaggio, di cui ero all’epoca caporedattore.

Si era nei primissimi mesi del 1986, e poiché a maggio si sarebbe dovuto pubblicare il n.100, si ragionava su cosa fare per celebrare l’importante traguardo in modo speciale, roboante. L’idea venne a Maurizio Bianchini (non a Stèfani, checché possa dirne lui), che volle riprendere adattandola a noi una felice intuizione della indimenticata rivista Gong: nel novembre 1975, i ragazzacci si erano inventati un nuovo album di Crosby, Stills, Nash & Young, intitolato Red Wood, e sulle loro pagine lo avevano presentato “in anteprima” con un credibilissimo articolo di Riccardo Bertoncelli, mettendo in agitazione gli appassionati. Così, in quel maggio 1986, Il Mucchio mise in copertina il suo artista-guida con lo strillo “Anteprima mondiale! Springsteen, il nuovo triplo album dal vivo”; all’interno, oltre a un poster del Boss, una maxi-recensione firmata Massimo Cotto del fantomatico Songs To Orphans. Il tutto era bene organizzato: Cotto era un esperto della materia e, forte della sua ottima penna, aveva brillantemente raccontato un ipotetico live ideale, quello che ogni fan avrebbe voluto ascoltare in quei giorni in cui non esisteva ancora nulla di ufficiale – infiniti, invece, i bootleg – che documentasse la verve sul palco del musicista americano. Il live in questione, si leggeva, era giunto nelle nostre mani in formato test-pressing “grazie a una vecchia promessa di Clarence Clemons”. Trentasei anni fa le notizie giravano molto più lentamente e la credibilità del Mucchio fece sì che ci credettero tutti-tutti. Lettori, importatori, negozianti e colleghi tempestarono la sede di telefonate e addirittura alla CBS, la casa discografica, impiegarono un po’ a essere sicuri che si trattava di una beffa; beffa in qualche misura dichiarata, giacché il pezzo di Cotto si chiudeva con la frase “Abbiamo tra le mani un triplo dal vivo di Bruce che aspettavamo da anni e che pensavamo non sarebbe mai arrivato. Tanto che quando andremo a comprarlo conserveremo il timore che sia stato tutto semplicemente uno scherzo”.

Molti si incazzarono, eh, pure di brutto, ma alla fine il giornale aveva venduto migliaia di copie in più del solito, aveva ottenuto con minimo sforzo una grande pubblicità e, comunque, tanti avevano apprezzato. Nel numero successivo, un editoriale a firma Maurizio Bianchini gettò acqua sul fuoco, ma prendendo giustamente anche un po’ in giro quelli che si erano inalberati. Ci fu poi una postilla, che pochi ricordano: quando qualche mese dopo Springsteen pubblicò per davvero il suo primo album in concerto (il quintuplo Live 1975-1985), lo rimettemmo in copertina, con sotto il suo nome la spiritosa dicitura “il quintuplo dal vivo del Boss è falso?”. Per fortuna, nessuno ci prese sul serio.

Scrivevo prima che da giovane ero più “ingessato”, ma anche allora in me viveva anche un lato per così dire ludico. Lo prova il fatto che per il n.4 della fanzine Red Ronnie’s Bazaar, del 1980, avevo recensito un disco inesistente, un live diviso a metà tra due atipiche band punk californiane, Screamers e Mutants. All’ultimo momento, immaginando quanto i (pur pochi) cultori del genere mi avrebbero insultato per averli “costretti” a mettersi alla ricerca di un album impossibile da trovare, decisi di lasciar perdere e Red, che aveva già impaginato tutto e stava per andare in stampa, non tolse la recensione ma la oscurò scrivendoci sopra che ci avevo ripensato. Non mi sarebbe dispiaciuto riproporla qui sul blog, ma il testo originale è finito chissà dove e non posso recuperarlo interamente dalla rivista proprio perché in buona parte coperto.

(1) Shock!, la rivista mancata.
(2) Le (prime) dimissioni dal Mucchio.
(3) Il post-Mucchio e la nascita di Velvet.
(4) Velvet Story.
(5) La collaborazione con Rumore.
(6) Gli inserti “Fuori dal Mucchio” e “Classic Rock”.
(7) Il Mucchio Extra.
(8) La copertina (sbagliata) a Jeff Buckley.

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R.E.M. (1992)

Non ne sono proprio sicuro al 100%, dovrei fare verifiche, ma credo proprio che Automatic For The People sia l’unico disco dei R.E.M. che io non abbia recensito in tempo reale. In occasione del trentennale, che si festeggia il 5 ottobre 2022 (cioè oggi), recupero allora quanto scrissi cinque anni fa, quando dell’album vide la luce una bella ristampa estesa.

Automatic For The People
(Craft Recordings)
Non che sia una sorpresa, ma i sondaggi in Rete parlano chiaro: dei quindici album di studio firmati dai R.E.M. Automatic For The People è uno dei tre più apprezzati dai fan e per alcuni è il migliore in assoluto. Inevitabile, quindi, la celebrazione del venticinquennale, con una nuova ristampa in quattro diversi formati: LP e CD con il disco classico rimasterizzato dai nastri originali, CD doppio che aggiunge l’unico, splendido concerto tenuto dal quartetto nel 1992 (19 novembre al 40 Watt Club della natia Athens), cofanetto – in elegante confezione a libro – che acclude un terzo CD con venti demo più o meno perfezionati di episodi di Automatic For The People (i titoli sono però quasi tutti provvisori, e dunque intriga scoprire e confrontare versioni “primordiali” e finali) o sue outtake, nonché un Blu-Ray che propone sia remixati in Dolby Atmos (una specie di surround appena inventato), sia masterizzati in altissima risoluzione i dodici pezzi della scaletta standard e la bonus Photograph (nella quale Natalie Merchant dei 10,000 Maniacs duetta con Michael Stipe; nel 1993 uscì nella raccolta-benefit della Rykodisc Born To Choose), più sette videoclip e un filmato per la stampa realizzato sempre all’epoca.
Benché il prezzo non sia popolare (una novantina di euro), è fuori di dubbio che l’edizione più ricca meriti l’attenzione di ogni cultore del gruppo americano; il materiale extra non reperibile altrove è infatti notevole per quantità e qualità e l’operazione è persino superiore a quella analoga messa in atto lo scorso anno per quell’altro capolavoro chiamato Out Of Time. Un album che contiene Drive, Nightswimming, Man On The Moon, The Sidewinder Sleeps Tonight o Everybody Hurts è comunque di per sé una gemma; oltre alla bontà dei brani, a renderlo anche un campione di vendite internazionale fu la definitiva affermazione dei R.E.M. come band ideale per il pubblico di massa ma non scaduta agli occhi della critica e degli appassionati più esigenti. La magia di un songwriting aggraziato eppure a suo modo epico, le trame strumentali di mai stucchevole ricercatezza, l’eccezionale carisma non solo canoro del frontman e, in generale, la credibilità conferita da un percorso avviato nel circuito alternativo all’inizio degli ’80 e proseguito con estrema coerenza dopo l’approdo – nel 1988, con Green – al mercato major l’hanno giustamente resa un simbolo. La “deluxe” quadrupla di Automatic For The People consentirà agli aficionados di onorare una volta in più i propri beniamini senza sentirsi sfruttati, il disco nudo e crudo saprà offrire a quanti non lo avessero finora frequentato quarantanove minuti di intensissimo, folgorante, malinconico, gioioso benessere. Gloria in excelsis R.E.M., ora e sempre.
(da Classic Rock n.60 del novembre 2017)

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Alice In Chains (1992)

Il 29 settembre del 1992 gli Alice In Chains pubblicarono il secondo album Dirt, giustamente considerato uno dei massimi capolavori rock degli anni ’90 e non solo. Questo è ciò che ne scrissi all’epoca.

Dirt
(Columbia)
Proiettati tra le star dall’eccellente Facelift del 1990 (disco d’oro negli Stati Uniti), e ulteriormente affermati dal mini semiacustico Sap e dalla presenza nella colonna sonora di Singles, gli Alice In Chains sono ormai da considerare una delle band-chiave del nuovo rock d’o1treoceano: non solo perché, in spregio ai trend più in voga nella loro Seattle, hanno sempre tentato di esprimersi con uno stile ricco di personalità, ma anche perché sono stati in grado di raggiungere risultati assolutamente esaltanti per equilibrio, brillantezza e potenza di impatto fisico-cerebrale. Non sono ancora popolari come i concittadini Nirvana e Pearl Jam, ma qualcosa induce a ritenere che questo splendido Dirt potrebbe, se non proprio colmare, almeno ridurre il gap a dimensioni più che accettabili.
Non differisce granché dall’esordio, questa seconda fatica della band: anzi, ne ricalca minuziosamente gli schemi in bilico tra hard e psichedelia, evitando strutture troppo convenzionali e prediligendo trame dove la policroma complessità degli intrecci strumentali non riesce a ostacolare il godimento istintivo delle canzoni. Lasciano il segno, gli Alice In Chains, con le loro palesi citazioni di tardi Sixties e primi Seventies inserite in un contesto che non si può non definire moderno e attuale, con il misurato vigore degli assalti ritmici e l’intrigante insinuarsi delle chitarre, con la loro enfasi canora e il magico senso di inquietudine che sembra aleggiare sui loro brani; e appassionano, sottolineando una volta in più le risorse di quel crossover cui il rock di oggi continua a dovere il suo stato di grazia.
(da AudioReview n.122 del dicembre 1992)

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Blind Melon (1992)

Trent’anni fa, il 22 settembre 1992, usciva questo notevole album d’esordio dei Blind Melon, band statunitense del ricco filone alt-rock anche se il loro sound non nascondeva certo i suoi legami con le radici. Avevano un cantante fantastico che purtroppo, appena tre anni dopo, sarebbe stato ucciso da una overdose. Recensii il disco, che ebbe anche parecchio successo, in occasione della sua uscita sul mercato europeo.

Blind Melon
(Capitol)
A qualche mese dall’uscita americana, avvenuta nel settembre dell’anno scorso, viene finalmente distribuito anche in Europa l’album di debutto dei Blind Melon; finalmente perché il gruppo, nato nel 1990 a Los Angeles dall’aggregazione di cinque musicisti provienienti da varie parti degli States (tre dal Mississippi, uno dall’Indiana, uno dalla Pennsylvania) non meritava davvero di rimanere un “oggetto di culto” per i soli attenti osservatori del mercato import, ma reclamava al contrario l’attenzione e il consenso della platea internazionale.
Si respirano atmosfere inequivocabilmente Seventies, in questo variopinto patchwork elettroacustico dove R&B, southern rock e folk (ma anche hard, soul e psichedelia) si amalgamano in tredici episodi di enorme calore e impeto espressivo, e ci si meraviglia di come i Blind Melon ricordino di volta in volta artisti diversissimi tra loro – a titolo di esempio: Pearl Jam, Guns N’Roses, Neil Young, Black Crowes, Jane’s Addiction – senza per questo smarrire la loro definita identità. Inebriante, sul serio, abbandonarsi alle atmosfere soffici ma non del tutto prive di asprezze proposte dalla band, marchiate a fuoco dal canto duttile del bravissimo Shannon Hoon (qualcuno ricorderà il suo duetto con Axl Rose nella seconda versione di Don’t Cry) e intrise di una verve onirico-allucinata che quasi per magia non attenua la naturale fisicità del sound; ed è bello, semplicemente bello, ricevere ulteriore conferma di come il desiderio di recuperare antiche radici non debba per forza avvilirsi nei cliché di sterili ed effimeri revival.
(da AudioReview n.126 dell’aprile 1993)

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Michael Chapman(2017-2019)

Il 10 settembre del 2021 se ne andava, ottantenne, uno dei musicisti più brillanti e purtroppo spesso dimenticati del circuito folk britannico, area della quale è comunque stato un protagonista non convenzionale. Ammetto non senza un po’ di vergogna di non avere mai approfondito con metodo la sua sterminata e frastagliata discografia, ma prima o poi lo farò; intanto, mi fa piacere recuperare e proporre in questa sede le mie recensioni dei suoi due ultimi, veri album da solista, davvero molto, molto belli.

50
(Paradise Of Bachelors)
Il “Cinquanta” del titolo indica gli anni di carriera, ma se Michael Chapman avesse voluto riferirsi agli album editi, il numero sarebbe stato poco più basso. Dal 1969 del Rainmaker con cui esordì su Harvest, lo storico marchio “progressivo” della EMI, il cantante/chitarrista e songwriter inglese non si è infatti mai fermato, continuando a incidere ed esibirsi a dispetto di consensi commerciali mai eclatanti: un eroe di culto stimatissimo dai colleghi, che nel suo mezzo secolo di dedizione alla musica si è destreggiato fra folk e jazz, non disdegnando contaminazioni con il rock e qualche anomalia.
Composto da dieci episodi mediamente lunghi e realizzato con un gruppo di musicisti giovani – eccetto la rediviva Bridget St John – capitanato dall’idolo indie Steve Gunn (anche alla produzione), il disco affianca una bella selezione di brani già conosciuti e alcuni inediti. Non c’è però alcun effetto-antologia, vista la coerenza delle trame e di un’ispirazione legata alle radici e allo storytelling di matrice americana; ne derivano quadretti di notevole brillantezza nonostante i toni in generale un po’ ombrosi, che colpiscono per spessore di scrittura, bontà delle interpretazioni, forza suggestiva. È folk-rock, nessun dubbio, ma chiunque conosca un minimo la materia non potrà mai anteporre alla definizione qualcosa come “il solito”.
(da Classic Rock n.51 del febbraio 2017)

True North
(Paradise Of Bachelors)
Eroe di (ampio) culto dell’area folk-rock, con deviazioni nel jazz, nel blues e persino nel prog, il settantottenne Michael Chapman è uno di quei veterani che hanno conquistato nuova gloria nel circuito indie/alternativo contemporaneo, forte dell’amore e del sostegno di giovani e entusiasmati discepoli. 50, l’album con il quale l’artista inglese aveva celebrato due anni fa il suo mezzo secolo di carriera, ebbe come padrino Steve Gunn e come ospite d’onore alla seconda voce Bridget St.John; il doppio sodalizio è ora riproposto in questo nuovo capitolo, che mette in fila più brani nuovi e meno rielaborazioni dal passato laddove nel precedente avveniva il contrario. Assieme fosco e luminoso, True North è una sorta di personale autoesorcismo, un tirar fuori con il tramite di chitarre arpeggiate, violoncello, pedal steel e canto fascinosamente agro quel che cova dentro quando si è anziani ma non si vuole ancora dichiarare la resa. Un disco intenso e autentico, struggente e vivace, come quelli che si facevano una volta. E che, per fortuna, si fanno ancora.
(da Classic Rock n.75 del febbraio 2019) 

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