Articoli con tag: folk e dintorni

Black Snake Moan

Ho conosciuto Marco Contestabile, in arte Black Snake Moan, il 17 ottobre del 2019. Suonava a Roma, al Lanificio, e la performance mi folgorò, “costringendomi” a recensire il suo album appena uscito, il suo primo per così dire ufficiale; dell’esordio autoprodotto del 2017 non avevo purtroppo saputo nulla, ma recuperai quella sera stessa. Quello che scrissi del nuovo disco, a inizio novembre, si può leggere qui sotto; non solo confermo tutto, ma rileggendomi mi scopro molto soddisfatto, anche sotto il profilo formale, delle mie parole.

Phantasmagoria
(Teen Sound-La tempesta)
Le vie del blues sono infinite e il famoso diavolo lo si può incontrare persino al crocicchio della SS1 con la strada che conduce a Tarquinia, la storica cittadina del Viterbese che ventisette anni fa ha dato i natali a Marco Contestabile, alias Black Snake Moan. È infatti lui che, nascosto dietro una sigla da gruppo, si destreggia in perfetta solitudine – anche dal vivo – tra batteria essenziale, chitarra, tastiere e voce, affrescando canzoni collocabili in un luogo sospeso tra folk e psichedelia con qualche vago aggancio all’avant-rock. Il passo avanti compiuto rispetto al comunque ottimo Spiritual Awakening, autoprodotto un paio di anni fa in una stampa in vinile di appena trecento copie numerate, è significativo: il nuovo disco offre un sound meno asciutto e più ammaliante nelle sue rifrazioni estatiche, nelle sue vampate esoticheggianti, nelle sue melodie seduttive ben coniugate a ritmiche più o meno incalzanti, nelle sue atmosfere avvolte in una foschia mai opprimente, nel suo approccio generale per così dire “sciamanico”. Tutto molto intenso e visionario: musica da trance, ipnotica e ieratica, che induce a guardarsi dentro; e che sparge attorno a sé fragranze di terra, di natura, di incenso.
(da Blow Up n.259 del dicembre 2019)Black Snake Moan, che si è battezzato così ispirandosi a un country-blues di Blind Lemon Jefferson (That Black Snake Moan del 1926, a sua volta figlio di un altro brano, Black Snake Blues, inciso sempre nel 1926 da Victoria Spivey), non ha ancora confezionato il suo terzo LP (comunque in fase di pianificazione), ma negli ultimi mesi si è riaffacciato sul mercato con due 45 giri: Revelation & Vision (Dead Music/Tufo Rock), cinquecento copie in vinile arancione marmorizzato, pubblicato l’8 giugno 2022, e Fire & What You See che ha visto la luce per l’americana Hypnotic Bridge lo scorso 31 marzo. Lo stile rimane legato al blues psichedelico ipnotico ed evocativo, ma i singoli sembrano mettere in evidenza una lieve accentuazione dell’elemento lisergico, un’accresciuta verve compositiva e una maggiore cura per la resa sonora; da segnalare come ulteriore novità l’inserimento a piano basso e tastiere di Gabriele Ripa, che ha portato alla decisione di Black Snake Moan di proporsi in concerto, all’occorrenza, come duo e non solo come “one man band”. Belle notizie, insomma, per un musicista di talento e di respiro internazionale, che non a caso ha già raccolto consensi fuori dai nostri angusti confini.

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R.E.M. (1983)

Il 12 aprile del 1983 vide la luce il primo LP dei poi famosissimi R.E.M. e il vostro giovane cronista, che già conosceva la band, era lì pronto a recensirlo, addirittura come “disco del mese”. Con il senno di poi, trovo quanto scrissi un po’ freddino, ma andò così. Per altri articoli su di loro, basta cliccare qui, qui, qui e qui.

Murmur
(I.R.S.)
Secondo l’autorevole parere del calendario, i Sixties si sono conclusi ben tredici anni e mezzo fa. Cronologicamente, almeno, perché dal punto di vista musicale, e più precisamente da quello del rock, essi non sembrano essere mai definitivamente trascorsi, nel senso che ancora oggi esistono numerosissimi artisti che si riallacciano a quelle sonorità così infinitamente ricche di attrattive e di fascino. Il fatto, a pensarci bene, stupisce non poco: gli artisti in questione sono nella maggior parte dei casi meno che ventenni e viene spontaneo chiedersi come alcuni di essi riescano così perfettamente a identificarsi nel sound di un’epoca che non hanno realmente “vissuto”.
L’occasione per parlare ancora una volta di questo recupero di tradizioni, che sarebbe ingiusto definire “revival” (non si tratta di riproporre un “vecchio” tipo di sound, ma di prenderne gli elementi caratterizzanti e di plasmarli grazie alle esperienze moderne), ci è offerta adesso dai R.E.M., un quartetto statunitense (di Athens, la stessa città dei B-52’s) già segnalatosi all’attenzione del pubblico con il singolo Radio Free Europe del 1981 e il 12” EP Chronic Town del 1982, e giunto al primo album con questo elettrizzante Murmur. Il primo accostamento suggerito dall’ascolto del disco è con i Byrds, dai quali i R.E.M. sembrano aver ereditato parecchio; logicamente, il paragone e valido solo per quanto riguarda l’impressione generale suscitata ds determinati brani (ad esempio, l’iniziale Radio Free Europe, Laughing, Catapult, e, a essere sinceri, numerose altre delle dodici della scaletta), specie per via della timbrica del cantante Michael Stipe e dell’uso di certe soluzioni chitarristiche. Il tutto è però arrangiato secondo dettami “new wave”, con schemi ritmici più accentuati e più accurate manipolazioni delle strutture armoniche, ma il sound dei R.E.M. possiede comunque l’impostazione pop e la melodia tipiche degli immortali anni ’60. L’operazione è portata a termine in modo del tutto soddisfacente, e Murmur si rivela, nel complesso, un ottimo LP; certo, qui siamo parecchio lontani dall’estro devastante dei Gun Club, dalla follia degli Shockabilly o dagli esercizi meramente accademici dei Chesterfield Kings, ma ciò non toglie che i R.E.M. meritino il nostro rispetto e la nostra considerazione, oltre l’appellativo, che sembra sempre più appropriato man mano che i solchi si susseguono, di “Byrds degli Eighties”.
(da Il Mucchio Selvaggio n.65 del giugno 1983)

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Dead Cat In A Bag

Di tanto in tanto mi piace recuperare tutto quello che ho scritto in passato di band/artisti italiani (e non) più o meno di nicchia, perché l’obiettivo primario di questo blog è diffondere cultura musicale anche quando ciò comporta meno visualizzazioni di quelle raccolte quanto gli argomenti sono più popolari (triste faccenda, ma va così). In questo caso sotto gli spot finiscono i torinesi Dead Cat In A Bag, che nel settembre 2022 hanno pubblicato in CD un quarto album di cui, a differenza di quelli che l’hanno preceduto, non ho avuto modo di occuparmi su carta; l’ho fatto allora qui, in parallelo all’uscita in vinile, recuperando per completezza anche le tre vecchie recensioni e scoprendo, rileggendole, di avere usato in tutte l’aggettivo “cavernoso” e di essere ricorso almeno una volta all’autocitazione.

 

We’ve Been Through
(Gusstaff)
Anche se si tratta di una citazione letteraria (Mark Twain) e il trio torinese si impegna nel cercare di convincere che il suo nome non è sinistro, l’immagine di un gatto morto in una borsa non evoca certo sensazioni positive, specie quando si accoppia a una musica dal sapore spesso minaccioso. È in ogni caso un viaggio vivace e appassionante, quello proposto dalla band, tanto nei tre album messi in fila tra il 2011 e il 2018, quanto nei dieci nuovi brani – otto originali e due cover, il tradizionale Wayfaring Stranger e Hunter’s Lullaby di Leonard Cohen – allineati in questo quarto lavoro, forse il migliore del lotto, nel quale il gruppo è rimasto fedele al suo ormai consolidato stile: un’Americana avvolta in arie noir nella quale confluiscono influenze balcaniche e latine e che, a dispetto del suo aspetto apparentemente scarno, si avvale dell’uso di vari strumenti all’occorrenza inusuali maneggiati dai tre titolari e da un ampio stuolo di ospiti, con il canto basso e roco di Luca “Swanz” Andriolo a fungere da elemento di raccordo. Livido ma ricco di colori, per lo più ritmato ma in qualche circostanza pacato e avvolgente, il quadro sonoro folk-country-blues-bandistico dipinto dai Dead Cat In A Bag ha tutto ciò che occorre per affascinare profondamente, con buona pace di chi non guarderà la luna bensì il dito: ovvero, le affinità con Tom Waits, Nick Cave, Mark Lanegan, Calexico, Will Oldham, Micah P. Hinson, Howe Gelb, Black Heart Procession e chi più ne ha più ne metta.

Lost Bags
(Viceversa)
Un gran bel ritorno in pista, dopo alcuni anni di pausa, per la gloriosa Viceversa di Catania: il primo album dei Dead Cat In A Bag, nati come duo di folk deviato e poi evolutisi in una compagine assai più ampia, è uno di quei dischi che difficilmente lasciano indifferenti, vuoi per la voce cavernosa di Luca Andriolo, vuoi per la particolarità di musiche ben poco solari e parecchio “cinematografiche” nelle quali confluiscono strumenti acustici, elettrici, elettronici e “trovati per caso”. Le basi rimangono folk/blues, ma le varie contaminazioni – con il Messico, con i Balcani, con chissà quale terra che non esiste – collocano l’ensemble torinese in una twilight zone dove vagano, inquieti, gli spiriti di Tom Waits e Giant Sand, Nick Cave e Black Heart Procession, Calexico e Will Oldham, Vinicio Capossela e Bachi da Pietra. Il tutto accompagnato da una confezione in bianco/nero altrettanto suggestiva, che odora di polvere e amplifica gli echi di un passato impresso più nel DNA che nella memoria.
(da Il Mucchio Selvaggio n.682 del maggio 2011)

 

Late For A Song
(Viceversa)
A seguire il Lost Bags del 2011, i Dead Cat In A Bag hanno confezionato un‘altra pregevole raccolta di canzoni all‘insegna di un folk per lo più notturno e straniante, i cui toni scuri sono enfatizzati dal canto cavernoso e sofferto. Per il gruppo torinese un nuovo viaggio fra cantautorato essenziale, sonorità bandistiche, atmosfere cinematografiche, blues, country, Messico e Balcani, che al confronto con il primo album ha guadagnato in consistenza e sfumature senza perdere in genuinità e ispirazione.
(da Blow Up n.193 del giugno 2014)

 

Sad Dolls
And Furious Flowers
(Gusstaff)
Giunti al terzo capitolo di una vicenda avviata sette anni fa, i Dead Cat In A Bag ribadiscono le qualità della loro formula, un folk-rock dai molteplici riferimenti geografici che evoca suggestioni cinematografiche e teatrali e che alla luce del sole preferisce le tenebre; un sound surreale ma a suo modo seducente, di base elettroacustico ma punteggiato di elettronica e strumenti inusuali oltre che marchiato da un canto in inglese ruvido e cavernoso, che si muove in una twilight zone nella quale sono riconoscibili i profili spettrali di Giant Sand e Black Heart Procession, Calexico e Tom Waits, Bachi da Pietra e Vinicio Capossela. Il materiale è autografo, con le sole eccezioni di una efficace cover di Venus In Furs dei Velvet Underground e di una The Clouds che accoppia un testo di Shakespeare a una musica ispirata da Domenico Modugno; c’è di che rimanere spiazzati ma è uno straniamento positivo, ricco di stimoli, a tratti persino inebriante nella sua malinconica e pur sinistra godibilità.
(da Blow Up n.241 del giugno 2018)

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Gun Club (1982)

Uscito il 20 settembre 1982, il secondo LP dei Gun Club mi arrivò appena in tempo per essere recensito nel numero di novembre del defunto Mucchio Selvaggio. Lo reputo ancora oggi un capolavoro e, dunque, quanto scrissi all’epoca con tutto l’entusiasmo, la forma legnosa e un pizzico di non tanto giustificata saccenza dei miei ventidue anni non mi meraviglia affatto.

Miami
(Animal)
Abbandonata la Ruby a favore della neonata Animal Records di Chris Stein, i Gun Club tornano su vinile con il loro secondo LP, a seguire lo strepitoso debutto Fire Of Love. La conferma che tutti attendevamo è giunta puntuale e inequivocabile, giacché Miami si rivela un signor disco, valido almeno quanto il suo predecessore, e per di più ricco di interessanti innovazioni: i Gun Club, infatti, danno prova di essere notevolmente maturati, proponendo un sound più curato e policromo, complice probabilmente anche l’attenta produzione di Chris Stein.
A un primo ascolto, Miami evidenzia immediatamente le sue differenze da Fire Of Love, presentando brani nel complesso più pacati e raffinati. I Gun Club, cioè, sembrano avere parzialmente rinunciato all’aggressività e alla voluta grezzezza di molti episodi del primo lavoro a favore di una musica meno violenta, più pulita e più curata negli arrangiamenti ma sempre in grado di trasmettere sensazioni forti e affascinanti. La lezione del Gun Club, come molti di voi (spero) già sapranno, è sostanzialmente rock e si allaccia a molti differenti aspetti dell’ampia tradizione musicale statunitense: punk, rockabilly, country e psichedelia, tanto per citare qualche esempio, confluiscono come per incanto in brani di rara bellezza, nei quali la chitarra secca e graffiante di Ward Dotson domina, assieme alla voce potente e versatile di Jeffrey Lee Pierce; un impasto sonoro dove basso, batteria, steel guitar (strumento tipico del country-rock), piano, percussioni e (in un pezzo) addirittura violino fanno a gara nel costruire efficacissime armonie lanciando un “messaggio” che non può non essere recepito da chi sente sulla pelle il brivido e il feeling del r’n’r. L’album è stupendo dall’inizio alla fine e non credo che gli estimatori (numerosi, a quanto pare) di Fire Of Love avranno difficoltà ad apprezzarlo, nonostante quelle sue novità che, per quanto positive, potrebbero di primo acchito disorientare; la vena e le capacità dei Gun Club, comunque, emergono maggiormente (a mio parere) in composizioni come Carry Home, Run Through The Jungle, Watermelon Man, John Hardy (rilettura di un noto traditional) o Fire Of Love e soprattutto nella conclusiva Mother Of Earth, un capolavoro come pochi. Sì, d’accordo, Miami viene a costare la bellezza di quindici biglietti da mille, ma vi assicuro che, ora come ora, non potreste impiegare la cifra in maniera migliore. I Gun Club hanno tutte le carte in regola per riscuotere il vostro incondizionato consenso, e la presenza di Miami nella vostra discoteca di amante del rock più “vero” è per lo meno doverosa.
(da Il Mucchio Selvaggio n.58 del novembre 1982)

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Blind Melon (1992)

Trent’anni fa, il 22 settembre 1992, usciva questo notevole album d’esordio dei Blind Melon, band statunitense del ricco filone alt-rock anche se il loro sound non nascondeva certo i suoi legami con le radici. Avevano un cantante fantastico che purtroppo, appena tre anni dopo, sarebbe stato ucciso da una overdose. Recensii il disco, che ebbe anche parecchio successo, in occasione della sua uscita sul mercato europeo.

Blind Melon
(Capitol)
A qualche mese dall’uscita americana, avvenuta nel settembre dell’anno scorso, viene finalmente distribuito anche in Europa l’album di debutto dei Blind Melon; finalmente perché il gruppo, nato nel 1990 a Los Angeles dall’aggregazione di cinque musicisti provienienti da varie parti degli States (tre dal Mississippi, uno dall’Indiana, uno dalla Pennsylvania) non meritava davvero di rimanere un “oggetto di culto” per i soli attenti osservatori del mercato import, ma reclamava al contrario l’attenzione e il consenso della platea internazionale.
Si respirano atmosfere inequivocabilmente Seventies, in questo variopinto patchwork elettroacustico dove R&B, southern rock e folk (ma anche hard, soul e psichedelia) si amalgamano in tredici episodi di enorme calore e impeto espressivo, e ci si meraviglia di come i Blind Melon ricordino di volta in volta artisti diversissimi tra loro – a titolo di esempio: Pearl Jam, Guns N’Roses, Neil Young, Black Crowes, Jane’s Addiction – senza per questo smarrire la loro definita identità. Inebriante, sul serio, abbandonarsi alle atmosfere soffici ma non del tutto prive di asprezze proposte dalla band, marchiate a fuoco dal canto duttile del bravissimo Shannon Hoon (qualcuno ricorderà il suo duetto con Axl Rose nella seconda versione di Don’t Cry) e intrise di una verve onirico-allucinata che quasi per magia non attenua la naturale fisicità del sound; ed è bello, semplicemente bello, ricevere ulteriore conferma di come il desiderio di recuperare antiche radici non debba per forza avvilirsi nei cliché di sterili ed effimeri revival.
(da AudioReview n.126 dell’aprile 1993)

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