interviste

Gianluca Grignani (1998)

Questa intervista, realizzata il 29 gennaio 1998, ha dietro una storia particolare. Nel 1996, sulle pagine de Il Mucchio Selvaggio, avevo assunto una posizione molto netta a favore de La fabbrica di plastica di Gianluca Grignani, e dopo aver ascoltato in anteprima il suo successore Campi di popcorn mi parve giustissimo concedere al musicista la copertina della rivista, all’epoca settimanale. Ne parlai con il direttore e la proposta fu accettata senza problemi, ma quando tutto era pronto per procedere, il sempre brillante Stèfani disse di aver cambiato idea e che la copertina non si sarebbe fatta più, perché la scelta rischiava di irritare i lettori più legati al rock. Va da sé che mi incazzai come un muflone, perché una volta fatte promesse a musicisti e discografici non è certo bello rimangiarsele sulla base dell’umore, ma non riuscii ad averla vinta come quasi sempre accadeva. Feci sapere a Grignani che in copertina ci sarebbe andato qualcun altro e lui, rimastoci molto male, mi chiese di cestinare l’intervista. Potevo ovviamente fregarmene e pubblicarla lo stesso, ma a differenza di altri sono una persona seria e quindi la lasciai nel cassetto, per poi recuperarla un anno abbondante dopo in un libretto intitolato Fuori dal Mucchio – una raccolta di mie interviste ad artisti italiani – che però rimase praticamente “fantasma” (racconto la vicenda qui). Sensato, allora, riprenderla in questa sede, assieme alla mia recensione di Campi di popcorn, nella quale mi sbilanciai con aspettative andate poi, purtroppo, deluse.

Campi di popcorn
Mercury/PolyGram
Personaggio singolare, Gianluca Grignani. Determinato, geniale, forse anche un po’ fuori di testa. Matto, in senso buono, per avere avuto il coraggio – pagato naturalmente con un deciso calo di vendite – di scendere dal carrozzone del pop di consumo, rinnegando il patetico freak show sanremese e imboccando una via alternativa del tutto imprevedibile per uno che non possiede – sono parole sue – “una radicata cultura musicale underground”. Un segnale importante che due anni or sono La fabbrica di plastica aveva amplificato, tra la generale sorpresa, con un suono potente, visionario e all’occorrenza anche crudo, dove echi del passato (Battisti e Beatles) tracimavano (involontariamente?) in una moderna poesia rock’n’roll quasi alla Smashing Pumpkins.
Non è sorprendente come il suo predecessore, Campi di popcorn, e magari nemmeno altrettanto temerario in ottica commerciale, ma ha comunque grandi meriti: in primis, quello di mettere in luce l’accresciuta maturità compositiva e interpretativa del giovane autore e cantante, oltretutto sorretta dalla ricca produzione americana (l’album è stato inciso agli studi Hit Factory di New York con l’ausilio dell’esperto Jay Healy); poi, quello di ribadire con un linguaggio sonoro meno irruente ma non per questo meno estremo – fare caso a certi arrangiamenti pseudo-lisergici o a certe linee melodiche brillantemente contorte – un discorso creativo all’insegna della massima libertà, teso ad assecondare null’altro se non la propria indole più o meno moderatamente sovversiva; infine quello di allineare dodici ottime canzoni obliquamente pop (le più apprezzate da chi scrive: Dalla cucina al soggiorno, Candyman, il singolo Baby Revolution, The Joker, la title track, Hey Little Man) che parlano di emozioni, aspirazioni e allucinazioni. E che hanno la capacità di colpire sempre a fondo, nonostante – o forse grazie a? – il loro aspetto ibrido e la generale inquietudine che le pervade. Un altro paio di album del genere, e nessuno potrà negare a Gianluca quel trono di “Lucio Battisti dei 2.000” al quale, ora come ora, sembra essere l’unico pretendente davvero credibile.
(da Il Mucchio Selvaggio n.291 del 3 febbraio 1998)
Il mio canto libero
Con il terzo, brillante album Campi di popcorn, Gianluca Grignani ha proseguito con ancor maggiore decisione lungo la strada tracciata con La fabbrica di plastica: quella di una canzone visionaria, intensa e creativa che, senza trascurare la melodia (obliqua), spinge la contaminazione tra rock e pop verso territori inconsueti e affascinanti. Spetterà forse all’inquieto Gianluca il titolo di “Lucio Battisti del Terzo Millennio”, constatata la sua capacità di sovvertire genialmente le regole della musica italiana di largo consumo? Troppo presto per affermarlo con certezza, ma di sicuro molti indizi fanno propendere per tale tesi; ed è proprio per raccoglierne altri, unendo esigenze professionali e piacere del dialogo, che è stato fissato quest’incontro, seppure in un luogo inadatto a favorire la concentrazione come l’ampia e affollatissima hall dell’Hotel Hilton di Roma.

Con La fabbrica di plastica hai avviato un percorso piuttosto temerario, i cui risultati commerciali sono stati di gran lunga inferiori a quelli del Grignani “sanremese” del debutto. Te la senti di provare a fare un bilancio?
Credo che La fabbrica di plastica sia comunque servito a darmi la possibilità di aprire un’autostrada nel mezzo della giungla discografica, di essere lasciato totalmente libero di prendere le decisioni che più mi aggradano. È vero che in rapporto a Destinazione Paradiso le vendite non sono state esaltanti, ma sono convinto che con il tempo l’album acquisirà ulteriore considerazione. Una delle cose che più mi hanno fatto piacere, tra l’altro, è stato scoprire come La fabbrica di plastica abbia ribaltato molti giudizi nei miei confronti, specie nel giro rock alternativo.

Quali sono state, invece, le reazioni di chi ti conosceva per La mia storia tra le dita o Falco a metà? I tuoi vecchi fan, gli addetti ai lavori non specializzati…
Beh, l’impatto è stato destabilizzante, ma era ovvio: in Italia, a livello di massa, certe cose fanno un po’ paura. Anch’io, conoscendo i meccanismi, mi stupivo quando mi capitava di ascoltare per radio i pezzi de La fabbrica di plastica.

Ritieni di essere stato supportato a dovere della PolyGram, oppure pensi che la tua casa discografica avrebbe potuto e dovuto fare di più? Mi sembra strano, alla luce delle centinaia di migliaia di copie di Destinazione Paradiso vendute fuori dall’Italia, che La fabbrica di plastica non sia stato pubblicato all’estero…
Anche in PolyGram sono rimasti spiazzati, non c’è dubbio. In ogni caso il problema principale dei miei rapporti con l’etichetta era la mia ritrosia a concedermi, il mio rifiuto a tutto ciò che era finalizzato a promuovere non la mia musica ma il commercio della stessa. Ovviamente, creatività e mercato devono coesistere; io cercherò con il massimo impegno di difendere la mia integrità artistica, naturalmente senza passare il limite oltre il quale questo atteggiamento dovesse compromettere le mie opportunità di ripropormi. Purtroppo, come ben sai, non siamo in tempi di mecenatismo.

Questo significa che sarai più malleabile?
La mia intransigenza dell’epoca era la logica risposta all’assurdità di ciò che mi veniva chiesto di fare. mentre il nuovo orientamento è in linea con il discorso che mi interessa portare avanti. Alla fine, l’unica forma di propaganda a favore de La fabbrica di plastica sono stati i concerti, per di più tenuti in locali piuttosto piccoli.

In generale, pensi di aver sbagliato qualcosa nel tuo modo di porti?
Non lo so, ma sono fermamente convinto che non esistevano alternative. La diplomazia non sarebbe servita, c’era bisogno di una scossa.

Alla luce del successo solo relativo de La fabbrica di plastica, è stato difficile convincere i discografici a lasciarti proseguire nel tuo progetto?
Non ho dovuto convincere nessuno. Non vedo Campi di popcorn come la continuazione della fabbrica di plastica, ma semplicemente come un terzo album: un disco a sé stante, seppure con i suoi punti di contatto con i due che l’hanno preceduto. Ancora una volta indica una direzione nuova in termini sia di scrittura, sia di suono; l’idea era quella di un prodotto di respiro internazionale, non in termini di mercato ma di linguaggio. In ogni caso, non cercavo di dimostrare qualcosa in particolare, la scelta è nata da una mia precisa necessità espressiva.

Per registrarlo sei andato fino a New York.
Nessuna dietrologia e nessun desiderio di “fare scena”: semplicemente, avevo bisogno di lavorare in un luogo dove sapevo di poter ottenere in poco tempo ciò che mi occorreva.

A proposito, come sei entrato in contatto con Jay Healy?
Cercavo un produttore straniero e Corrado Rustici mi ha suggerito Jay. A me, oltre ai grandi mezzi, serviva solo un tecnico che sapesse aiutarmi a mettere in pratica ciò che già avevo in mente, non una persona alla quale affidarmi dal punto di vista artistico.

In pratica, come si svolgeva la vostra collaborazione?
Io consegnavo i musicisti le parti spiegando loro lo spirito delle interpretazioni e impostando i suoni di base, mentre Jay interveniva subito dopo, cercando di capire esattamente cosa volesse ottenere e suggerendo eventuali modifiche e migliorie. Siamo andati avanti per tentativi, agevolati comunque dal fatto che non dovevamo “inventare” ma solo perfezionare ciò che era già più che delineato.

Qual è stato l’aspetto più positivo del vostro rapporto professionale?
Di sicuro l’avere avuto la possibilità di sperimentare diverse opportunità sapendo di essere ascoltato sul serio. Jay si è dedicato al disco con l’intenzione di comprendere le mie idee e offrendo piena disponibilità, e sebbene non siano mancati attriti – lui, da ingegnere, mirava a far quadrare tutto, mentre io amo anche partire per la tangente – mi ritengo più che soddisfatto dei risultati.

Tra gli scopi del tuo viaggio in America c’era la ricerca di stimoli e confronti, oppure eri lì solo nei panni del turista?
In verità, a monte, non mi sono posto il problema. Comunque non ho avuto molti contatti con la gente, non mi è sembrato che gli americani avessero granché da dare. Ho girato molto da solo in macchina, seguendo un itinerario bizzarro: da San Francisco alla Bassa California passando per New Orleans, New York, Vancouver…

Cosa ti ha colpito di più?
I paesaggi, ne ho visti di straordinari. Mentre giravo prendevo appunti con il mio registratore, scrivevo storie e racconti.

A livello di ispirazione, il vagabondare per gli States ha in qualche modo pesato sull’album?
Tranne Buongiorno guerra, che al tempo non era stata ancora completata e che probabilmente ha risentito di qualche influenza di viaggio, tutti i pezzi erano già scritti. Al momento di registrare ho cambiato qualche faccenda di dettaglio, ma non so razionalizzare se l’America c’entri qualcosa o meno.

Campi di popcorn è piuttosto stralunato, nelle melodie e nelle atmosfere: è una cosa voluta?
In un certo senso, sì: le strutture melodiche non sono allineate ai canoni consueti. All’inizio mi sono un po’ sforzato di evitare le soluzioni banali, e man mano che procedevamo nello snaturare la routine il processo diventava sempre più spontaneo. Il difficile era evitare le cadute di tensione, ma in questo credo di aver centrato l’obiettivo.

Infatti, nello stile così come nell’attitudine, è un lavoro fortemente rock.
La parola rock non mi piace, mi sa tanto di luogo comune: preferisco ragionare in termini di musica pop, cioè popolare, o folkloristica, nel senso di folk e quindi di legame con le radici. Rock mi fa troppo pensare agli anni ‘70, a uno stile di vita che oggi è cristallizzato nella banalità e nell’ingenuità dello stereotipo.

Beh, è indubbio che con il passare degli anni il rock – o, almeno, certo rock – abbia perso il suo significato trasgressivo.
Sì, ma non è questo il punto. Sono convinto che ai giorni nostri una cosa veramente rock, nel senso originario del termine, sia fare la propria musica, essere fedeli a se stessi.

E tu, adesso, ci stai riuscendo? A giudicare dalle prime reazioni, ti sembra che Campi di popcorn stia riscuotendo consensi?
Direi di sì. il singolo, Baby Revolution, sta piacendo un po’ a tutti e nel complesso i segnali sono più che positivi. Sono contento che la semina stia dando i suoi frutti, ma quello che più mi rende felice è poter continuare a fare la mia musica, quella che rispecchia me stesso. Il fatto che la gente lo apprezzi mi gratifica, ma per me è soprattutto una garanzia per il futuro: non vorrei mai trovarmi a dover scrivere una canzone pensando ai soldi che devo ricavarne.

Credi che ci riusciresti?
Finora non è mai successo e spero che non succeda mai: per farlo, dovrei essere arrivato proprio “alla frutta”. Ammetto però che preferirei comunque comporre qualcosa per il mercato piuttosto che abbandonare la musica per un altro genere di lavoro.
(dal libro Fuori dal Mucchio, UltraSuoni 1999)

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Eugenio Finardi (1975-1979)

Ieri sera sono andato a vedere Eugenio Finardi in Euphonia Suite, progetto condiviso con il pianista Mirko Signorile e il sassofonista Raffaele Casarano: uno spettacolo di grande bellezza, fragile e intenso allo stesso tempo, imperdibile per ogni “finardiano”. Sull’onda dell’emozione, ho così pensato di recuperare dall’archivio un ampio stralcio (la versione integrale è nel mio libro Voci d’autore) di un lunghissimo articolo-intervista realizzato nel 2005 per il Mucchio Extra sulla base di una chiacchierata di quattro o cinque ore nella quale Finardi – il periodo era quello di Anima blues– ripercorse la sua intera carriera fino ad allora. Lo stralcio in questione riguarda gli anni ’70, dal primo al quinto LP, e ritengo sia davvero interessante.

Musica ribelle
A Milano vivevo in questa realtà di Movimento della quale faceva parte anche Demetrio Stratos degli Area, che avevo conosciuto alla Numero Uno; lui era una specie di ponte tra la generazione dei più anziani e quella di noi giovani, e poi era un altro semi-apolide come me… un greco nato ad Alessandria e cresciuto con il mito del rock e del blues che viveva a Sassuolo… mi aveva adottato come un fratellino. Fu Demetrio a portarmi a conoscere Gianni Sassi, il deus ex machina della Cramps. A differenza di mio padre, che era un vecchio liberale conservatore con il quale per forza di cose litigavo da matti, Gianni era una figura incredibilmente stimolante: ti raccontava di Duchamps o di Giotto, ti dava un libro da leggere e in qualche modo ti influenzava, tanto che rientrato a casa ti trovavi automaticamente a scrivere. In studio mi ha sempre dato carta bianca, voleva solo che non gli rompessi le palle per le copertine. Da buon pubblicitario mi ha creato l’immagine, che però non corrispondeva proprio alla realtà: davo l’impressione di un figlio del popolo, di un meccanico dell’hinterland milanese, e parecchi storcevano la bocca nello scoprire che non era così. D’altronde io non riuscivo proprio a essere rigoroso e triste come i “colleghi” cantautori, e in più ero borghese, americano e rock; si sa, la cultura di Sinistra non è mai stata molto rock e ha sempre sospettato della musica in quanto musica… ai festival dell’Unità ancora mi succede, dopo trent’anni di militanza e di sostegno della causa, che qualche organizzatore mi guardi storto”.

Svincolato senza problemi dalla Numero Uno, Finardi si lega dunque alla Cramps, etichetta davvero fuori dai canoni del mercato convenzionale che ha come alfieri gli Area e che appoggia proposte rock, d’avanguardia, filo-jazz e cantautorali quanto più possibile creative. Nell’estate del 1975 arriva così Non gettate alcun oggetto dai finestrini, “summa” delle idee elaborate assieme ad Alberto Camerini e messe in bella copia con l’aiuto di musicisti di valore come lo stesso chitarrista, la sezione ritmica Hugh Bullen/Walter Calloni e il violinista Lucio Fabbri (e c’è pure Battiato, accreditato con lo pseudonimo Franc Jonia, al synth VCS 3). “Ai tempi avrei parlato di collettivo, ma in verità il suono era mio e di Alberto. L’atteggiamento di base era quello della “jam controllata”, ancor oggi distintivo della mia musica. Non mi interessa una creazione intellettuale complessa, di tipo romantico, bensì un veicolo tramite il quale portare emozioni collegate in diretta; cerco la verità emotiva dei musicisti, ci tengo a farli esprimere al loro meglio tirandone fuori la cifra, e miro infatti a trovare persone che suonino in un certo modo e a gestirne le dinamiche”. Coprodotto da Finardi, Camerini e Massimo Villa, il disco allinea sette pezzi mediamente lunghi in bilico tra rock e jazz/fusion, con qualche accento pop, qualche dilatazione di gusto prog e testi che pur mettendo in primo piano l’impegno non mancano di soluzioni atipiche, specie per gli standard seriosi del “giro”: emblematica la Se solo avessi d’apertura, fin dalla prima strofa “Se solo avessi un Kawasaki / allora sì che mi farei tutte le donne che vorrei”. “Naturalmente volevo essere ironico, ma pochi lo hanno capito. Allora quasi tutti facevano gli ermetici, mentre io esprimevo i concetti con chiarezza, pane al pane e vino al vino. Ho sempre odiato i dogmatismi, le liturgie, le recite… in questo sono assolutamente americano, penso al contenuto, al succo. Qui in Italia, ma non solo qui, regnano luoghi comuni devastanti, che hanno soffocato il senso critico: manca il coraggio della verità intellettuale e di quella emotiva, e ciò alimenta la rabbia elettrica della mia musica“. Non c’è tantissimo rock’n’roll, in Non gettate alcun oggetto dai finestrini: a ben vedere, gli unici pezzi incalzanti – i due di maggiore durata, paradossalmente – sono la summenzionata Se solo avessi, sorta di trait d’union tra Area e Premiata Forneria Marconi, e la cover marziale/rurale di Saluteremo il signor padrone. Qualche lampo accende Quando stai per cominciare (una ballata contro il servizio di leva) e La storia della mente, cofirmata con Claudio Rocchi e tendente alla psichedelia, mentre più soffici e avvolgenti sono Taking It Easy (unico episodio in inglese: un vezzo, se così lo si vuol definire, al quale il Nostro di rado rinuncerà), Caramba(dedicata a un ipotetico, giovane tutore dell’ordine, visto come uomo e vittima invece che come nemico) e Afghanistan, piccolo inno scuoti-coscienze composto a quattro mani con il solito Camerini. A dispetto delle inevitabili ingenuità, un esordio più che promettente, che pur non raccogliendo consensi unanimi lancia il suo titolare sul proscenio rock-pop nazionale: dal “battesimo” al Parco Lambro del 1975 i concerti fioccano (fondamentali i tour di spalla a Fabrizio De André e P.F.M.), in parallelo all’attività di conduttore dalle frequenze di Radio Milano Centrale, una delle prime emittenti “libere” che in quei mesi nascono come funghi in tutt’Italia. Dal bisogno di una sigla caratterizzante per il programma scaturisce quindi La radio, dinamica e deliziosa filastrocca che da allora è un vero tormentone dell’etere (“L’ho scritta in tram credendo che sarebbe durata due settimane, e invece… Fu Sassi a dirmi di metterla su disco ed è diventata una specie di condanna: è carina, ma non è esattamente la mia cosa della quale vado più fiero”); un tormentone quasi quanto Musica ribelle, la traccia che la precede all’inizio della scaletta del nuovo album Sugoe che certifica il passaggio di Finardi da emergente a stella di prima grandezza (“È una costruzione ideologica, parte da un assunto: non era una canzoncina ma uno sviluppo di Saluteremo il signor padrone. Mi piacerebbe che recuperasse il significato originale invece di essere una sorta di icona che oltretutto ha condizionato la percezione di me: qualsiasi cosa abbia fatto in tutti questi anni, rimango quello della musica ribelle”). Più concreto al paragone con il debutto, ma assai più surreale nella copertina, Sugo esce nella primavera del 1976 e fotografa un artista maturato, circondato da compagni eccelsi (ancora Calloni e in qualche occasione Bullen, ma pure Patrizio Fariselli e Ares Tavolazzi degli Area) e forte di dieci brani più concisi, all’efficacia dei quali contribuisce quel Lucio Fabbri con cui Eugenio divide anche l’alloggio (“Dopo il mio pur relativo successo Camerini si era un po’ staccato da me. Lucio, che oggi è non a caso arrangiatore e produttore, ragiona più in termini di canzoni, e nonostante collaborasse al songwriting meno di Alberto, lavorare con uno con la mentalità alla McCartney mi ha orientato in quella direzione”). Oltre alla sanguigna Musica ribelle e all’aggraziata ma scoppiettante La radio, l’album contiene varie altre perle come le incalzanti Soldi e Voglio (“Un pezzo estremamente mio, molto indicativo della mia attitudine alla musica”), la più leggera ed evocativa Oggi ho imparato a volare (“Per me volo è sempre stato sinonimo di liberazione, anche se il doppio senso con la droga – leggera, però – è fin troppo chiaro”) e la cupa e rarefatta La paura del domani, che sulla scia delle vecchie Afghanistan o Se solo avessicostituisce un brillante esempio di quelle “canzoni educative” assai frequenti nella poetica finardiana. “Ho sempre avuto un senso morale di quel che canto, sapendo che sarà ascoltato. Ho sentito la responsabilità di non essere un cattivo maestro e difatti sono stato anche accusato di moralismo a causa del finalino positivo di parecchi miei testi, che volevo fossero come dei dazebao: immediatamente comprensibili ed emozionali. Adesso, quando interpreto uno di quei brani, mi sento un po’ predicatorio, ma in fondo l’immagine da “preacher” non mi dispiace. Molti miei fan sono migliori di me perché hanno dato retta alle mie parole invece di imitarmi… Senza dubbio ho avuto una vita molto spericolata, ma senza essere mai laido e rimanendo pulito: nelle mie canzoni non ci sono “fai male”, “spara” o “uccidi”, bensì “ascolta”, “ragiona”, “capisci”. Sono contento di avere un’età perché questo mi dà l’autorevolezza di dire certe cose, la stessa autorevolezza che possedeva mio padre – che inevitabilmente porto dentro di me – e la stessa autorevolezza che provavo ad esprimere all’epoca, dato che mi sentivo proprio come adesso”.

Consacrato dall’ultima edizione del Parco Lambro (la Musica ribelle lì eseguita è nel 33 giri-cartolina dell’evento, marchiato dalla Produttori Associati) e da vendite considerevoli, Sugo è seguito nel 1977 da Diesel, che vede all’opera gli strumentisti di sempre (ospiti di rilievo, in due brani ciascuno, il redivivo Camerini e Paolo Tofani – un altro Area – che firma anche la produzione) e vanta un repertorio persino più ispirato ed eclettico. “Considero Diesel, assieme a Sugo, il mio capolavoro: la differenza principale è che questo è più jazz laddove quello era più rock. Rimane però quella che io chiamavo ‘ventosità’, il tempo di Musica ribelle o Voglio: su e giù all’interno di un galoppo, sedicesimi che aiutano a sostenere l’italiano, tensione in avanti. Io volevo qualcosa che avesse lo spirito, la propulsione e la cattiveria del rock ma che fosse italiana nei contenuti e nei suoni: ecco dunque il mandolino o il maggiore con il violino. Pensavo a una musica “nostra” per il mondo, e magari se il progetto della Cramps non si fosse interrotto l’obiettivo si sarebbe anche potuto centrare: l’Italia ha perso il treno proprio in quegli anni, scegliendo la disco music invece del r’n’r”. Come per l’esordio, il recidivo Eugenio apre le danze con Tutto subito, un pezzo tanto energico quanto incompreso (“È un altro dei miei tentativi, fallito miseramente, di essere spiritoso”), e prosegue con altre otto gemme l’una diversa dall’altra nelle atmosfere così come nei temi affrontati: Scuola e Non diventare grande mai appartengono al filone “predicatorio”, Si può vivere anche a Milano è una dichiarazione d’affetto per la propria città (“Quello era un momento vivacissimo: l’estate del ‘76, che si è protratta fino al ‘77, è stata un po’ la “Summer Of Love” milanese, o addirittura italiana”), Zucchero e Non è nel cuore parlano con intelligenza d’amore (“E giù accuse di ‘tradimento’… sono questi i luoghi comuni che non sopporto: Non è nel cuore, come canzone, era persino più rivoluzionaria di Musica ribelle”), la “ventosa” e solenne Giai Phong è incentrata sul Vietnam (“Veniva dalla lettura del libro di Tiziano Terzani. La Storia ha poi dimostrato che la realtà era molto meno romantica e positiva di come volevamo immaginarla, ma non è l’utopia a essere sbagliata: l’idea in sè non ha deluso, lo ha fatto la sua applicazione”). Di livello superiore, almeno sul piano strettamente compositivo, sono infine la jazzata title track, uno splendido omaggio alla vita “on the road” (“È in qualche modo derivata da una canzone sudamericana, Il funerale del lavoratore: il concetto è quello del contadino che ha tutta la sua vita nella terra e quando muore ci viene sepolto dentro. Mi sono così chiesto quale fosse “la terra” del musicista, e ho concluso che era la strada tra un palco e l’altro”) e la drammatica Scimmia, intensissima nel suo crudo raccontare – con il solo limite di una “morale” troppo semplicistica – l’odissea della tossicodipendenza da eroina (“Mi fa tuttora venire i brividi e fatico a sentirla, specie nella parte centrale. Credo che il testo si commenti da solo: è un diario specifico inserito nel più ampio contesto della mia storia personale, una testimonianza molto bella di una cosa che bella non è… soprattutto visto quanti, amici e non, ci hanno lasciato le penne. Col senno di poi, non so se la riscriverei”).

Se Sugo era stato l’album del lancio, Diesel è quello del consolidamento della posizione centrale di Finardi nel rock italiano. Ma non sono, come sembrerebbe, tutte rose e fiori. “Per me non era facile, in quegli anni. Mi hanno danneggiato la macchina sotto casa, ho avuto minacce di morte, per non parlare degli autoriduttori ai concerti: a Padova, roba che a raccontarla oggi rischi di farti prendere per matto, ci hanno persino sparato sul palco. Io non ero preparato, ero troppo giovane: il successo dovrebbe arrivare dopo, verso i trent’anni, quando si ha la maturità per potersi gestire in modo adeguato, come ha fatto Ligabue. Inoltre, c’era il discorso economico: dai tempi della mia prima tournée con Fabrizio De André ero sempre in giro per concerti, e sempre guadagnando pochissimo perché – per questioni di coerenza, di idealismo o di stupidità: era la filosofia di “non guadagno” del giro Cramps – chiedevo la paga di un qualsiasi operaio specializzato. Si calcolavano le ore da quando uscivo da casa a quando vi rientravo, più le spese. Ho fatto date da ventimila persone mettendomi in tasca un milione di lire“. Ad aprire gli occhi a Eugenio e a indurlo a chiedere il giusto sono i ragazzi della sua nuova band Crisalide, ingaggiati dopo che Lucio Battisti si era impossessato di Bullen e Calloni (“Fu la fine dell’originario suono Finardi”): Stefano Cerri al basso, Mauro Spina alla batteria, Ernesto Vitolo alle tastiere e Luciano Ninzatti alla chitarra, con i quali nel 1978 è approntato Blitz. “È un disco che butterei via. Ragionandoci adesso, lì avrei dovuto mollar tutto e fare Anima blues, ma mi è mancato il coraggio”. Troppo impietoso con se stesso, il Nostro, e soprattutto con un album che pur lamentando carenze di “ventosità” e risultando magari eccessivamente pulitino mette in fila otto brani per lo più di pregio, che non a caso verranno in larga parte rielaborati negli anni a venire: brani che nulla aggiungono (e qualcosa tolgono) all’espressività dell’artista, ma che comunque sono considerati tasselli importanti del suo repertorio storico. Affetto e Come un animale danno spazio all’intimismo, la “politica” Cuba gioca con sonorità caraibiche così come la Drop Out Rock in inglese lo fa con le “radici”, Guerra lampo e Op.29 in do maggiore – quasi rimosse, chissà perché, dalla memoria collettiva – uniscono r’n’r più o meno grintoso e “morali”, la Northampton, Genn. ‘78 sostenuta dagli archi è nel contempo una rappacificazione con il padre e un’autoaffermazione della propria raggiunta maturità (“Ero tornato per qualche mese negli Stati Uniti, l’ho scritta lì; all’epoca ci credevo sul serio, mentre ora mi rendo conto che ero molto meno adulto ed equilibrato di quanto pensassi”). E poi c’è la celebre Extraterrestre. “È nata dalla mia passione per la fantascienza ma anche dalla situazione dei miei amici Carlo Massarini e Chicco Martini, che pur essendo dei privilegiati – Carlo abitava in un attico bellissimo, indipendente dall’appartamento dei genitori – erano sempre insoddisfatti e avrebbero voluto trovarsi altrove; è dedicata a chi sogna di essere chissà dove e non apprezza quindi ciò che ha. Strutturalmente era un tentativo di confezionare un hit sullo schema di Musica ribelle, ma non funzionò… è buffo che tutti la ricordino come un clamoroso successo, quando invece Blitz vendette ventiseimila copie: una miseria rispetto a Sugo o Diesel, che a quanto mi risulta – non ho dati precisi – giunsero attorno alle duecentomila. Si erano creati problemi di distribuzione che io imputai a Sassi, con il quale c’erano già tensioni perché non avevo mai visto una lira. Così lui, capendo di non potermi più governare, mi cedette alla Phonogram con tutto il mio catalogo: nelle riedizioni Cramps, infatti, io non ci sono, o ci sono su concessione, perché sono l’unico dell’etichetta a essere stato “girato” a una multinazionale“.

Nel 1979 Finardi consuma così il definitivo “tradimento” con Roccando rollando, presentato con una copertina di dubbio gusto (“La fece Mario Convertino e a differenza di quella di Blitz mi piaceva, la trovavo psichedelica. Alla luce di Anima blues non è nemmeno tanto fuori tema, con quell’idea del cowboy metropolitano…”) ed edificato su sonorità nel complesso più soffici, accompagnate da testi che legittimano accuse di imborghesimento e abiura del passato (eloquenti in tal senso 15 bambini, Lasciati andare e Ridendo scherzando, i pezzi più criticati dai vecchi fan). “È un disco più morbido, volevo fare rock’n’roll ma con un’indole diversa, un po’ come oggi Cremonini o i Negrita. Il mio pubblico, però, era ancora giovane e incazzato, e non poteva accettarlo. Era un periodo particolare: mi ero lasciato con la Elia (la compagna “storica” citata in Non è nel cuore, NdA) e istantanemente era arrivata Patrizia, i musicisti – gli stessi di Blitz – erano più “jazzaroli” e “fusionari”, lo studio Stone Castle di Carimate offriva opportunità eccezionali e io ho sempre amato lavorare sui suoni… e poi le corde vocali erano molto rilasciate, perché i miei problemi di salute si riflettevano anche sulla voce“. Tra i momenti più significativi sono da citare la nostalgica e disillusa Zerbo, la delicatissima Legalizzatela (“Incredibile che ventisette anni dopo sia ancora di attualità. Il discorso sulle droghe è molto difficile, ma credo si debba accettare il fatto che una certa percentuale di esseri umani ha bisogno di assumere qualche tipo di sostanza, ha bisogno di questo tipo di rituali”) e La canzone dell’acqua, elemento che come e più dell’aria ritornerà spesso in futuro: “Il liquido si adatta ma non è comprimibile, non è contenibile se non accettandolo. È una fantastica metafora di come mi sento io: non ha forma ed è aperto a ogni opzione. Sono legatissimo all’acqua: faccio immersioni, vela… Ho anche volato ultraleggero, ma quando si vola l’aria è come un fluido: ho smesso di volare quando ho scoperto le immersioni, perché sono il massimo del volare: il mare è lo spazio e tu sei senza gravità”.

Nel 1979, però, le ali sono tarpate dalle contingenze. “Con la morte di Demetrio, la mia idea di Movimento – quella del Lambro: una visione psichedelico-umanista, e non marxista o militarista, della rivoluzione – poteva dirsi naufragata. Avevo guai personali, subivo contestazioni a ogni concerto, gli anni dell’utopia erano ormai di piombo. Mi sentivo perseguitato, tirare avanti non era facile e io facevo di tutto per rendermelo più complicato”. L’umore di Eugenio è tutto nella prima strofa de La canzone dell’acqua: “Stasera ho chiesto al caso che cosa devo fare / sono stanco del mio ruolo e ho voglia di cambiare / non so se andare avanti o se è il caso di scappare / o se è solo il bisogno di un nuovo sogno da sognare”. Il caso risponderà alla domanda.
(da Mucchio Extra n.19, autunno 2005)

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Giovanni Lindo Ferretti (2)

Circa otto anni fa recuperai sul blog la prima parte di un lunghissimo articolo/intervista a Giovanni Lindo Ferretti apparso inizialmente nel 2002 sul Mucchio Extra e in seguito ripreso, con qualche piccola modifica, nel mio libro Voci d’autore. Lì si raccontava dell’infanzia e dell’adolescenza del protagonista, oltre che della nascita dei CCCP Fedeli alla linea; qui, invece, si prosegue con il periodo cruciale dell’affermazione della band, segnato dall’uscita dei suoi primi dischi.

Ferretti foto

Spara JuriJ spara, spera Jurij spera, 1984-1986
Nel maggio del 1984, a Bologna, i CCCP entrano in studio per registrare le tre canzoni di quello che sarà il loro debutto su vinile per la Attack Punk Records, etichetta di punk anarchico ispirata dell’esperienza inglese della/dei Crass e facente capo al futuro terrorista multimediale Jumpy Velena. La qualità tecnica di Ortodossia è quella che è, ma la scelta di inserirvi Live In Pankow, Spara Jurij e Punk Islam si rivela vincente sotto ogni profilo: il singolo venderà molto al di sopra della media dell’underground nazionale dell’epoca, anche grazie alla cassa di risonanza spontaneamente fornita dai media più influenti (in novembre sia Panorama che L’Espresso, quest’ultimo con la firma prestigiosa di Pier Vittorio Tondelli, dedicano spazio all’ensemble). Più che un semplice gruppo rock, i CCCP sono ormai un fenomeno culturale in senso lato, e anche se la loro fama dipende soprattutto dalle provocatorie performance sul palco, l’uscita di quel 45 giri con copertina rigorosamente rossa e piena di pagine di proclami a effetto serve a renderli realtà tangibile. E pensare che, per convincerli, il martellante Jumpy aveva impiegato quasi un anno. “A noi interessava solo il live, non i dischi: fu Jumpy a farci capire quanto la dimensione discografica fosse imprescindibile. Ha fatto la sua parte nella nostra storia, spiegandoci cose delle quali non avevamo alcuna conoscenza né percezione. In un certo senso, era l’opposto di noi: desiderava che il suo lavoro avesse un peso e un valore di tipo sociale, ma fondamentalmente era un musicista”.
Nel frattempo, il carnet concertistico si allunga al di là delle più rosee previsioni: per i CCCP è un momento magico, anche se ovviamente affiorano insoddisfazioni e contraddizioni. “Una volta, a Bologna, un tizio si è alzato dalla platea di gente seduta a terra a farsi le canne urlando ‘siete insopportabili, non è musica’, e io – che neppure lo avevo capito – gli ho risposto ‘non è mica una visita della mutua, non te l’hanno mica ordinato, vattene a casa tua, che cazzo ce ne frega’. La nostra naturale energia sovrastava la ragione, almeno sul palco. Poi, nei camerini, abbiamo realizzato che eravamo troppo: le mie parole, la chitarra di Zamboni, la batteria elettronica ammazzavano tutto. Noi eravamo convinti di suonare musica da ballo, ma il pubblico era immobile e solo ogni tanto qualcuno aveva il coraggio di mandarci affanculo. Io preferivo quelli che ci gridavano di andar via a quelli che restavano impassibili”. Per cercare di risolvere il problema, l’organico si arricchisce così di Danilo Fatur, in arte José Lopez Macho Frasquelo, Annarella (Antonella) Giudici, sorella maggiore di Zeo, e una seconda soubrette, Silvia Bonvicini. Quest’ultima, con un ruolo comunque più defilato, sarà della partita fino all’incisione del primo album, mentre gli altri due acquisteranno in fretta una funzione ben più importante di quella estetica-coreografica loro inizialmente affidata. “Eravamo troppo freddi, cerebrali, intellettuali. Dovevamo cambiare le carte in tavola, provare qualcosa di diverso. Al nostro palco mancavano dei corpi, il sudore del rock che noi avevamo sempre odiato perché eravamo statici, asettici. Fatur era un artista/spogliarellista che avevamo conosciuto nel giro delle discoteche e la nostra amica Annarella era bellissima, nonché capace di catalizzare l’attenzione e valorizzare qualsiasi straccio indossasse. Stabilimmo così di portare in scena una donna che si vestiva e un uomo che si spogliava, il contrario di quello che di norma accade. Alla Festa dell’Unità di Modena presentammo per la prima volta Antonella e Fatur insieme, senza alcuna scenografia: una ragazza che usciva con abiti sempre nuovi da dietro un piccolo paravento e un ragazzo che all’inizio era vestito da militare e alla fine era nudo. Avevamo davanti settanta signore anziane e altrettanti punk, tutti impazziti. Lì è nata la spettacolarità dei CCCP, che per un annetto è stata travolgente”.
A voler esser precisi, la spettacolarità dei CCCP è stata travolgente per ben più di un annetto, anche se spesso in modo distruttivo. “Tra il 1984 e il 1986 avremmo fatto duecento date dovunque, spesso con locali devastati e botte. È strano: l’intera avventura CCCP, vista a posteriori, ha un notevole spessore intellettuale, ma in verità tutto succedeva sulla spinta degli eventi. Provavamo quel che ci veniva in mente, non razionalizzandolo più di tanto: erano intuizioni legate a una quotidianità concreta, non comprensibili immediatamente. Avevamo la capacità di prevedere il futuro: Annarella si è vestita da musulmana e nel nostro primo video c’erano donne con il chador. Avvertivamo nell’aria cose che sembravano evidenti solo a noi, delle quali eravamo i primi a sconvolgerci”.
Tra il 1985 e il 1986, alla discografia della band si aggiungono tre nuovi lavori: la ristampa in formato 12” di Ortodossia, edita in Gran Bretagna dalla Crass come Ortodossia II e con una traccia in più, Mi ami? (“uno stillicidio delle parole di un libro di Roland Barthes”), dal memorabile incipit a tempo di reggae: “Un’erezione triste per un coito modesto, per un coito molesto / Spermi indifferenti per ingoi indigesti”); il 12”EP picture Compagni cittadini fratelli partigiani, addirittura privo dei titoli delle canzoni (le irruenti Militanz e Sono come tu mi vuoi, la schizofrenica e nichilista Morire, la marcia ossessiva Emilia paranoica) e Affinità – divergenze fra il compagno Togliatti e noi. Del conseguimento della maggiore età, primo album nel quale sfilano, tra gli altri, classici come CCCP, Curami, Io sto benee i remix di Mi ami? e Emilia paranoica. Rispetto all’esordio ci sono logicamente migliorie tecniche, ma il genere rimane lo stesso: per lo più ruvide e lancinanti filastrocche punk avvolte in atmosfere apocalittiche e frammiste di citazioni new wave, scandite dalla drum machine e flagellate dalla chitarra-grattugia di Zamboni, con la voce acuta di Ferretti a declamare testi efficacemente sloganisti a dispetto degli occasionali ermetismi (di senso, più che di linguaggio). “Non ho mai incontrato ostacoli di carattere musicale, dato che mi sono sempre limitato ad accettare quello che mi veniva proposto. In compenso, il mio problema sono le parole, un mezzo per il quale provo un interesse fortissimo: le mie difficoltà sono con i sostantivi, gli aggettivi, gli avverbi… Con Massimo filava tutto liscio: lui era addetto alle musiche e io alle parole, e ognuno dei due presentava all’altro quello che aveva partorito. Non avevamo un metodo di scrittura e capitava anche che, cazzeggiando assieme, nascesse qualcosa di buono. Per cinquanta parole posso partire anche da 1500: è solo un fatto di riduzione all’essenziale, non mi sono mai trovato con la pagina vuota senza saperla riempire. Non c’è un testo, in questi vent’anni, che non sia stato meditato, ripensato, sognato: mi sveglio di notte, cancello alcune cose, le riscrivo, torno a letto. Però le canzoni le declamo sempre, le so già nella mia testa: sono voce, non parole sulla carta”.
La frenesia e le (inconsapevoli?) pressioni dell’ultimo triennio si fanno sentire proprio dopo Affinità – divergenze: in un attimo, Negri lascia i compagni per studiare e trovare un lavoro serio, e Giovanni e Massimo devono affrontare il loro primo scontro. “È stata essenzialmente colpa mia e dei miei raptus adolescenziali tardivi. Massimo, razionale e pratico, non poteva lavorare con uno psicolabile, e per me era troppo difficile rapportarmi a un computer umano. Se Antonella non avesse preso in mano la situazione, la nostra pausa – nella quale, tra l’altro, ho allestito uno spettacolo intitolato proprio Psicolabile – sarebbe diventata una separazione definitiva, anche se in effetti era chiaro che il nostro percorso comune avrebbe dovuto avere ulteriori sbocchi. A quel punto, essendo indispensabile ricostruire l’equilibrio, abbiamo agito nel modo più razionale: inserendo un elemento preso dall’esterno. La mia penitenza fu convincere Ignazio Orlando, che era stato il nostro fonico per un paio di dischi, a venire a suonare il basso con noi. Non fu semplice, anche perché proprio il giorno prima aveva venduto il suo strumento, ma alla fine…”.
(dal libro “Voci d’autore”, Arcana 2007)

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Afterhours (2002)

Compie oggi vent’anni uno degli album più significativi della band di Manuel Agnelli. Al tempo, come potete leggere qui sotto, lo recensii in modo atipico.

Afterhours cop

Quello che non c’è
(Mescal)
Adesso posso dirtelo, Manuel: del tuo nuovo album avevo un po’ paura. Non tanto dell’assenza del tuo ormai ex compagno di merende Xabier Iriondo (concedimi un pizzico di ironia: quello che non c’è) e neppure del buio. Semmai, della luce che – causa successo che ti ha giustamente baciato e logico imborghesimento-da-anni-che-passano – poteva avvolgere la tua musica, rubandole quella cupezza e quell’ambiguità che da sempre la rendono speciale e unica. Lo so bene, che la tua naturale incapacità di restare fermo non ti avrebbe mai permesso di clonare Hai paura del buio? (Non è per sempre, del resto, aveva parlato chiaro) e lo so bene che non puoi fare a meno di metterti e rimetterti in discussione: a differenza degli eunuchi totali e parziali che affollano il circo del rock italico, scusa l’orrida ma esplicativa metafora, le palle non ti sono mai mancate; però dei cambiamenti è comprensibile avere timore, visto che si sa quel che si lascia – nel tuo caso, moltissimo – ma non quel che si trova.
Beh, sono felice di rassicurarti, e di rassicurare chiunque abbia nutrito dubbi analoghi, dicendoti che quel che ho trovato è splendido. E che non ti ho mai sentito tanto profondo e autorevole come in queste tue nove nuove canzoni, efficacemente arricchite di tinte e umori da te e dai tuoi bravissimi fiancheggiatori. Non ho idea di come hai fatto, bastardo!, ma sei riuscito a far convivere nello stesso cielo la brillantezza e il calore del sole di mezzogiorno con il mistero e il senso di straniamento di una notte senza stelle, intonando con un’espressività mai tanto vivida parole mai tanto dirette e toccanti; e, a volte, spiazzanti, perché da te tutto mi sarei potuto aspettare fuorché il meraviglioso romanticismo di quella Ritorno a casa che, con la sua impostazione recitativa e i suoi suoni tenui, sembra rubata al tuo amico Emidio Clementi (che non a caso citi affettuosamente in quell’altro chiaroscurale capolavoro che è Bye Bye Bombay). Che altro posso dirti, Manuel? Che se tutti i singoli fossero intensi, creativi e carismatici come Sulle labbra (e come la title track, La gente sta male e forse Bungee Jumping, prossimi candidati al ruolo di brani trainanti) l’etere nazionale sarebbe il Giardino dell’Eden? Che la torbida psichedelia di Varanasi Baby – il mio pezzo preferito, almeno fino a ora – saprebbe tenermi sulla corda anche se, invece di quattro minuti, ne durasse quarantaquattro? Che di rado una voce mixata così in primo piano sa essere contemporanemente funzionale all’equilibrio dei pezzi? Che è bellissimo perdersi nei mille dettagli strumentali di un album dove istinto e raffinatezza sono due facce della stessa medaglia?
No, Manuel, non ti dico altro. E continuo ad ascoltare queste canzoni “scure, dilatate e compatte”, così come tu le hai definite, tentando di carpir loro altri segreti. Grazie per avermi ricordato, una volta in più, cosa significhi la parola emozione.
(da Il Mucchio Selvaggio n.480 del 2 aprile 2002)

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Elli De Mon (2021)

Elli De Mon foto 3

Dopo le esperienze con varie band, da circa otto anni Elli De Mon – Elisa De Munari per l’anagrafe – porta avanti con riscontri significativi una carriera davvero in solitaria sotto il segno del più puro blues. In discografia, un 45 giri, un EP, un CD “split” con Diego DeadMan Potron e gli album Elli De Mon (2014), II (2015), Songs Of Mercy And Desire (2018) e, da pochi mesi, Countin’ The Blues (Queens Of The 1920’s), seguito musicale al suo libro omonimo del 2020 dedicato alle intrepide signore del blues anni ’20: dieci adattamenti (uno in meno nel CD) “in chiave rock” di brani più o meno oscuri proposti illo tempore da eroine quali Bessie Smith, Memphis Minnie, Elizabeth Cotten o Ma Rainey tra incisive saturazioni chitarristiche, batteria essenziale ma vigorosa, guizzante lap steel, inserti di sitar e dilruba e canto magneticamente evocativo. Ecco la versione integrale dell’intervista che le ho fatto per il numero di Classic Rock dello scorso settembre.

La tua folgorazione per il blues in un flash.
Guardando a posteriori i miei ascolti di adolescente e di adulta, direi che il blues – nel senso più ampio del termine – è il comune denominatore di tutti gli artisti ai quali sono affezionata, dai White Stripes a PJ Harvey. Se però parliamo di epifanie, sono due: un concerto di Jack Rose, di una quindicina di anni fa, un uomo solo e la magia della sua chitarra. Attraverso di lui ho capito l’accordatura aperta, il fingerpicking e il valore del silenzio. Quella sera disse poche parole, ma i suoi silenzi parlavano… il modo in cui dava respiro alle note, alle pause. Quella notte io e miei coinquilini lo ospitammo e gli chiesi da dove nascesse quel modo, quell’esigenza di suonare, e lui semplicemente mi rispose “il blues”. Da lì ho cominciato a cercare… e si arriva al secondo episodio, ossia Il giorno in cui ho posato sul piatto un disco di Fred McDowell. Appena la sua musica è uscita dalle casse è stato come se il cerchio si chiudesse e tutto acquisiva un senso. Era come se avessi trovato l’origine del tutto.
Perché la formula della “one-woman band”? Eri rimasta in qualche modo delusa dalle tue precedenti esperienze come componente di una band?
Sono un lupo solitario e una persona pragmatica, e nei gruppi in cui ho suonato la presenza di altri comportava un continuo scendere a compromessi. Un mio difetto è di essere intransigente, almeno per quanto riguarda il lato artistico della mia vita: non c’è verso di farmi fare una cosa che non mi va. Credo dipenda dal fatto che, proprio per conservare una certa libertà di pensiero ho scelto di avere un lavoro fisso che mi garantisca una certa autonomia nella quotidianità. Di conseguenza non sono obbligata a fare scelte artistiche che non giudico autentiche perché, altrimenti, non potrei portare a casa la pagnotta. Non è facile avere le stesse vedute con altre persone, specie a una certa età (quale io ho). Di conseguenza fare da soli, anche se molto faticoso, può rivelarsi più agevole.
Il tuo stile ha molte sfumature, ma mi è parso di rilevare una certa attenzione per il mondo esoterico e per il “dark”. Da dove deriva questa fascinazione?
Come ho detto in precedenza, sono una persona pragmatica, concentrata su una quotidianità piuttosto organizzata. È probabile che il mio lato esoterico abbia origini in parte inconsce, per compensare questo mio essere molto materiale e razionale. Sono laureata in etnomusicologia e di sicuro l’incontro con altre culture, come quella africana e soprattutto quella indiana, ha scatenato in me l’attrazione verso aspetti oggi poco sondati dalla nostra cultura, se non in modo superficiale e dogmatico, quali il sacro e la sua dimensione simbolica. Ecco, direi che più che l’esoterico mi incuriosiscono questi temi. Di conseguenza mi piace interessarmi alla musica folklorica e a come le diverse culture si rapportano a quelle sfere che da sempre interrogano l’uomo e lo spaventano. Per quanto riguarda il “dark”, in effetti le musiche che da sempre mi colpiscono, siano esse di matrice classica, folklorica o pop/rock, sono scritte in modi minori. Per un periodo mi sono obbligata a scrivere solo in maggiore. Mi riconosco molto nella musica modale, probabilmente perché ha delle componenti ataviche, ancestrali. Forse il lato scuro è legato a questo. Tuttavia non mi piacciono molti dei gruppi definiti dark, li trovo un po’ noiosi, un po’ chiusi su se stessi. Un po’ depressi (ride, NdI).
Da solista hai fatto tanto e raccolto consensi, specie all’estero. Sei rimasta stupita dallo sviluppo rapido e proficuo della tua carriera?
Mah… In fondo suono da una vita, lo sviluppo non è stato poi così rapido. E poi la mia vita sui palchi è veramente fatta di alti e bassi, sempre dalle stelle alle stalle e viceversa. Il giorno prima sono a suonare su un palco gigante di un bellissimo festival e il giorno dopo vicino al cesso del bar della stazione, con davanti solo quattro vecchi e il loro spritz. È difficile raggiungere una costanza, ma in fondo va bene così: mi fa tenere bene a mente quanto le cose siano sfuggevoli e mi mantiene con i piedi ben piantati a terra. E, cosa non scontata, il mio ego capriccioso a volte riceve delle belle scosse che lo costringono a ridimensionarsi. All’estero, prima della pandemia, avevo un bel giro, spero che a breve si potrà tornare su quei palchi.
In quanto donna, hai incontrato qualche difficoltà a essere presa sul serio?
Diciamo che molto ha a che fare con il tipo di scelte che si fanno. Ho evitato certi ambienti, perché per me puzzano… o, semplicemente, non ho il carattere adatto per averci a che fare. Nei posti che frequento – circoli culturali, ARCI, associazioni – ho trovato sempre molto rispetto. Va da sé che questi luoghi sono già sensibili a molte tematiche. Il discorso cambia quando hai a che fare con situazioni più mainstream, dove il tipo di narrazione è più stereotipato. Per risparmiare il mio fegato ho detto no. In questi anni mi sono fatta begli amici e amiche che con me condividono una vita sempre sulla strada, a suonare ovunque, dai bei palchi ai cessi dei bar dei quali dicevo prima.
Il tuo nuovo album è un tributo alle storiche blueswomen e segue un libro sullo stesso argomento. Immagino che ambedue abbiano alle spalle motivazioni non solo musicali…
Certo. Per me le loro canzoni sono una porta di accesso a un senso individuale e sociale del vivere, il loro blues è un vero e proprio modo di vedere la vita. Hanno usato il blues come un mezzo per raccontare la verità, testare i propri sentimenti, trovare la propria voce. Le loro canzoni sono state una via per nominare il proprio dolore, riconoscerlo e, forse, guarire. Hanno sollevato dei temi cruciali: l’abuso sessuale, l’omosessualità, il bisogno di riappropriarsi del corpo. E lo hanno fatto cent’anni fa, ben prima dei movimenti di emancipazione femminile dei ‘60 e dei’ 70, e per averlo fatto sono anche finite in prigione. A me sembra assurdo che nessuno abbia restituito a queste donne il loro valore politico, oltre a quello musicale. Ho trovato pochissima letteratura su queste artiste e spesso solo specifica, come articoli universitari. Credo che lo stigma razziale e di genere abbia ancora un certo peso. Nel mio piccolo volevo contribuire a diffondere la loro visione, a far capire quanto sia attuale e quanto il loro modo di fare musica sia stato un esempio politico da seguire, al di là del colore della pelle. Non sono afroamericana e certo non voglio portare avanti un’operazione di appropriazione culturale di un universo che non mi appartiene, riconosco che le mie radici sono completamente diverse. Ma con loro ho agito e agisco per empatia. E spero che molti altri possano farlo.
Ti sei posta obiettivi per il prosieguo, oppure vivi in qualche misura alla giornata?
Di cose in pentola ne bollono ma. anche visti i tempi, vivo un po’ alla giornata. Sicuramente continuerò a progettare e a portare avanti le mie idee, e se potrò realizzarle… ben venga. Al momento, però, ci vado cauta.
(in parte da Classic Rock n.106 del settembre 2021)

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