Questa intervista, realizzata il 29 gennaio 1998, ha dietro una storia particolare. Nel 1996, sulle pagine de Il Mucchio Selvaggio, avevo assunto una posizione molto netta a favore de La fabbrica di plastica di Gianluca Grignani, e dopo aver ascoltato in anteprima il suo successore Campi di popcorn mi parve giustissimo concedere al musicista la copertina della rivista, all’epoca settimanale. Ne parlai con il direttore e la proposta fu accettata senza problemi, ma quando tutto era pronto per procedere, il sempre brillante Stèfani disse di aver cambiato idea e che la copertina non si sarebbe fatta più, perché la scelta rischiava di irritare i lettori più legati al rock. Va da sé che mi incazzai come un muflone, perché una volta fatte promesse a musicisti e discografici non è certo bello rimangiarsele sulla base dell’umore, ma non riuscii ad averla vinta come quasi sempre accadeva. Feci sapere a Grignani che in copertina ci sarebbe andato qualcun altro e lui, rimastoci molto male, mi chiese di cestinare l’intervista. Potevo ovviamente fregarmene e pubblicarla lo stesso, ma a differenza di altri sono una persona seria e quindi la lasciai nel cassetto, per poi recuperarla un anno abbondante dopo in un libretto intitolato Fuori dal Mucchio – una raccolta di mie interviste ad artisti italiani – che però rimase praticamente “fantasma” (racconto la vicenda qui). Sensato, allora, riprenderla in questa sede, assieme alla mia recensione di Campi di popcorn, nella quale mi sbilanciai con aspettative andate poi, purtroppo, deluse.
Campi di popcorn
Mercury/PolyGram
Personaggio singolare, Gianluca Grignani. Determinato, geniale, forse anche un po’ fuori di testa. Matto, in senso buono, per avere avuto il coraggio – pagato naturalmente con un deciso calo di vendite – di scendere dal carrozzone del pop di consumo, rinnegando il patetico freak show sanremese e imboccando una via alternativa del tutto imprevedibile per uno che non possiede – sono parole sue – “una radicata cultura musicale underground”. Un segnale importante che due anni or sono La fabbrica di plastica aveva amplificato, tra la generale sorpresa, con un suono potente, visionario e all’occorrenza anche crudo, dove echi del passato (Battisti e Beatles) tracimavano (involontariamente?) in una moderna poesia rock’n’roll quasi alla Smashing Pumpkins.
Non è sorprendente come il suo predecessore, Campi di popcorn, e magari nemmeno altrettanto temerario in ottica commerciale, ma ha comunque grandi meriti: in primis, quello di mettere in luce l’accresciuta maturità compositiva e interpretativa del giovane autore e cantante, oltretutto sorretta dalla ricca produzione americana (l’album è stato inciso agli studi Hit Factory di New York con l’ausilio dell’esperto Jay Healy); poi, quello di ribadire con un linguaggio sonoro meno irruente ma non per questo meno estremo – fare caso a certi arrangiamenti pseudo-lisergici o a certe linee melodiche brillantemente contorte – un discorso creativo all’insegna della massima libertà, teso ad assecondare null’altro se non la propria indole più o meno moderatamente sovversiva; infine quello di allineare dodici ottime canzoni obliquamente pop (le più apprezzate da chi scrive: Dalla cucina al soggiorno, Candyman, il singolo Baby Revolution, The Joker, la title track, Hey Little Man) che parlano di emozioni, aspirazioni e allucinazioni. E che hanno la capacità di colpire sempre a fondo, nonostante – o forse grazie a? – il loro aspetto ibrido e la generale inquietudine che le pervade. Un altro paio di album del genere, e nessuno potrà negare a Gianluca quel trono di “Lucio Battisti dei 2.000” al quale, ora come ora, sembra essere l’unico pretendente davvero credibile.
(da Il Mucchio Selvaggio n.291 del 3 febbraio 1998)
Il mio canto libero
Con il terzo, brillante album Campi di popcorn, Gianluca Grignani ha proseguito con ancor maggiore decisione lungo la strada tracciata con La fabbrica di plastica: quella di una canzone visionaria, intensa e creativa che, senza trascurare la melodia (obliqua), spinge la contaminazione tra rock e pop verso territori inconsueti e affascinanti. Spetterà forse all’inquieto Gianluca il titolo di “Lucio Battisti del Terzo Millennio”, constatata la sua capacità di sovvertire genialmente le regole della musica italiana di largo consumo? Troppo presto per affermarlo con certezza, ma di sicuro molti indizi fanno propendere per tale tesi; ed è proprio per raccoglierne altri, unendo esigenze professionali e piacere del dialogo, che è stato fissato quest’incontro, seppure in un luogo inadatto a favorire la concentrazione come l’ampia e affollatissima hall dell’Hotel Hilton di Roma.
Con La fabbrica di plastica hai avviato un percorso piuttosto temerario, i cui risultati commerciali sono stati di gran lunga inferiori a quelli del Grignani “sanremese” del debutto. Te la senti di provare a fare un bilancio?
Credo che La fabbrica di plastica sia comunque servito a darmi la possibilità di aprire un’autostrada nel mezzo della giungla discografica, di essere lasciato totalmente libero di prendere le decisioni che più mi aggradano. È vero che in rapporto a Destinazione Paradiso le vendite non sono state esaltanti, ma sono convinto che con il tempo l’album acquisirà ulteriore considerazione. Una delle cose che più mi hanno fatto piacere, tra l’altro, è stato scoprire come La fabbrica di plastica abbia ribaltato molti giudizi nei miei confronti, specie nel giro rock alternativo.
Quali sono state, invece, le reazioni di chi ti conosceva per La mia storia tra le dita o Falco a metà? I tuoi vecchi fan, gli addetti ai lavori non specializzati…
Beh, l’impatto è stato destabilizzante, ma era ovvio: in Italia, a livello di massa, certe cose fanno un po’ paura. Anch’io, conoscendo i meccanismi, mi stupivo quando mi capitava di ascoltare per radio i pezzi de La fabbrica di plastica.
Ritieni di essere stato supportato a dovere della PolyGram, oppure pensi che la tua casa discografica avrebbe potuto e dovuto fare di più? Mi sembra strano, alla luce delle centinaia di migliaia di copie di Destinazione Paradiso vendute fuori dall’Italia, che La fabbrica di plastica non sia stato pubblicato all’estero…
Anche in PolyGram sono rimasti spiazzati, non c’è dubbio. In ogni caso il problema principale dei miei rapporti con l’etichetta era la mia ritrosia a concedermi, il mio rifiuto a tutto ciò che era finalizzato a promuovere non la mia musica ma il commercio della stessa. Ovviamente, creatività e mercato devono coesistere; io cercherò con il massimo impegno di difendere la mia integrità artistica, naturalmente senza passare il limite oltre il quale questo atteggiamento dovesse compromettere le mie opportunità di ripropormi. Purtroppo, come ben sai, non siamo in tempi di mecenatismo.
Questo significa che sarai più malleabile?
La mia intransigenza dell’epoca era la logica risposta all’assurdità di ciò che mi veniva chiesto di fare. mentre il nuovo orientamento è in linea con il discorso che mi interessa portare avanti. Alla fine, l’unica forma di propaganda a favore de La fabbrica di plastica sono stati i concerti, per di più tenuti in locali piuttosto piccoli.
In generale, pensi di aver sbagliato qualcosa nel tuo modo di porti?
Non lo so, ma sono fermamente convinto che non esistevano alternative. La diplomazia non sarebbe servita, c’era bisogno di una scossa.
Alla luce del successo solo relativo de La fabbrica di plastica, è stato difficile convincere i discografici a lasciarti proseguire nel tuo progetto?
Non ho dovuto convincere nessuno. Non vedo Campi di popcorn come la continuazione della fabbrica di plastica, ma semplicemente come un terzo album: un disco a sé stante, seppure con i suoi punti di contatto con i due che l’hanno preceduto. Ancora una volta indica una direzione nuova in termini sia di scrittura, sia di suono; l’idea era quella di un prodotto di respiro internazionale, non in termini di mercato ma di linguaggio. In ogni caso, non cercavo di dimostrare qualcosa in particolare, la scelta è nata da una mia precisa necessità espressiva.
Per registrarlo sei andato fino a New York.
Nessuna dietrologia e nessun desiderio di “fare scena”: semplicemente, avevo bisogno di lavorare in un luogo dove sapevo di poter ottenere in poco tempo ciò che mi occorreva.
A proposito, come sei entrato in contatto con Jay Healy?
Cercavo un produttore straniero e Corrado Rustici mi ha suggerito Jay. A me, oltre ai grandi mezzi, serviva solo un tecnico che sapesse aiutarmi a mettere in pratica ciò che già avevo in mente, non una persona alla quale affidarmi dal punto di vista artistico.
In pratica, come si svolgeva la vostra collaborazione?
Io consegnavo i musicisti le parti spiegando loro lo spirito delle interpretazioni e impostando i suoni di base, mentre Jay interveniva subito dopo, cercando di capire esattamente cosa volesse ottenere e suggerendo eventuali modifiche e migliorie. Siamo andati avanti per tentativi, agevolati comunque dal fatto che non dovevamo “inventare” ma solo perfezionare ciò che era già più che delineato.
Qual è stato l’aspetto più positivo del vostro rapporto professionale?
Di sicuro l’avere avuto la possibilità di sperimentare diverse opportunità sapendo di essere ascoltato sul serio. Jay si è dedicato al disco con l’intenzione di comprendere le mie idee e offrendo piena disponibilità, e sebbene non siano mancati attriti – lui, da ingegnere, mirava a far quadrare tutto, mentre io amo anche partire per la tangente – mi ritengo più che soddisfatto dei risultati.
Tra gli scopi del tuo viaggio in America c’era la ricerca di stimoli e confronti, oppure eri lì solo nei panni del turista?
In verità, a monte, non mi sono posto il problema. Comunque non ho avuto molti contatti con la gente, non mi è sembrato che gli americani avessero granché da dare. Ho girato molto da solo in macchina, seguendo un itinerario bizzarro: da San Francisco alla Bassa California passando per New Orleans, New York, Vancouver…
Cosa ti ha colpito di più?
I paesaggi, ne ho visti di straordinari. Mentre giravo prendevo appunti con il mio registratore, scrivevo storie e racconti.
A livello di ispirazione, il vagabondare per gli States ha in qualche modo pesato sull’album?
Tranne Buongiorno guerra, che al tempo non era stata ancora completata e che probabilmente ha risentito di qualche influenza di viaggio, tutti i pezzi erano già scritti. Al momento di registrare ho cambiato qualche faccenda di dettaglio, ma non so razionalizzare se l’America c’entri qualcosa o meno.
Campi di popcorn è piuttosto stralunato, nelle melodie e nelle atmosfere: è una cosa voluta?
In un certo senso, sì: le strutture melodiche non sono allineate ai canoni consueti. All’inizio mi sono un po’ sforzato di evitare le soluzioni banali, e man mano che procedevamo nello snaturare la routine il processo diventava sempre più spontaneo. Il difficile era evitare le cadute di tensione, ma in questo credo di aver centrato l’obiettivo.
Infatti, nello stile così come nell’attitudine, è un lavoro fortemente rock.
La parola rock non mi piace, mi sa tanto di luogo comune: preferisco ragionare in termini di musica pop, cioè popolare, o folkloristica, nel senso di folk e quindi di legame con le radici. Rock mi fa troppo pensare agli anni ‘70, a uno stile di vita che oggi è cristallizzato nella banalità e nell’ingenuità dello stereotipo.
Beh, è indubbio che con il passare degli anni il rock – o, almeno, certo rock – abbia perso il suo significato trasgressivo.
Sì, ma non è questo il punto. Sono convinto che ai giorni nostri una cosa veramente rock, nel senso originario del termine, sia fare la propria musica, essere fedeli a se stessi.
E tu, adesso, ci stai riuscendo? A giudicare dalle prime reazioni, ti sembra che Campi di popcorn stia riscuotendo consensi?
Direi di sì. il singolo, Baby Revolution, sta piacendo un po’ a tutti e nel complesso i segnali sono più che positivi. Sono contento che la semina stia dando i suoi frutti, ma quello che più mi rende felice è poter continuare a fare la mia musica, quella che rispecchia me stesso. Il fatto che la gente lo apprezzi mi gratifica, ma per me è soprattutto una garanzia per il futuro: non vorrei mai trovarmi a dover scrivere una canzone pensando ai soldi che devo ricavarne.
Credi che ci riusciresti?
Finora non è mai successo e spero che non succeda mai: per farlo, dovrei essere arrivato proprio “alla frutta”. Ammetto però che preferirei comunque comporre qualcosa per il mercato piuttosto che abbandonare la musica per un altro genere di lavoro.
(dal libro Fuori dal Mucchio, UltraSuoni 1999)