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Garbo e la new wave

Come sapete, cercare di arginare la disinformazione è per me una sorta di imperativo. Purtroppo ho poco tempo, ma quando mi ci metto ottengo qualche risultato, come si può desumere leggendo qui e qui. Spero di centrare il mio obiettivo anche in questa occasione.
La questione è semplice: da più parti (Wikipedia, articoli, perfino libri…), Renato Abate in arte Garbo è etichettato come “un esponente della new wave italiana”. Significativo l’incipit della sua voce Wikipedia: “Insieme a Faust’O, ai Diaframma e al primo Enrico Ruggeri, è stato un esponente della new wave italiana, corrente musicale nata nei primi anni Ottanta e ispirata da artisti internazionali come David Bowie, Bryan Ferry, Japan e Ultravox”. Prescindendo dalla castroneria che la new wave italiana sia nata nei primi ’80, chiunque abbia vissuto quegli anni sa bene che pressoché nessuno reputava Garbo “un esponente della new wave” (anzi, e un po’ mi spiace dirlo, i più “duri e puri” lo schifavano, o al massimo lo ascoltavano in segreto); nella sua musica e a volte nel suo look non mancavano elementi che potevano alimentare l’equivoco, ma l’artista milanese – come si riscontra pure nelle sue interviste del 1981, quando debuttò per la major EMI con A Berlino… va bene – non sapeva niente della new wave nazionale e conosceva ben poco quella internazionale, e soprattutto non aveva nulla a che spartire con il circuito più o meno underground della vera nuova onda tricolore. Incasellarlo nella new wave è quindi una vaccata di alto livello (del resto, c’è chi fa lo stesso con Alberto Camerini) oppure, volendo essere indulgenti, un’enorme forzatura storica e giornalistica. Chi non si fidasse del sottoscritto dovrà inevitabilmente prendere per buone le parole del diretto interessato, da me raccolte per una lunga intervista appena pubblicata nel n.39 di Vinile.

In Rete e non solo capita spesso di vederti associato alla new wave italiana, addirittura come uno dei suoi esponenti principali. Tu come la vedi?
Non sapevo nulla della new wave e non ho mai dichiarato di averne fatto parte. Facevo la musica che mi sentivo di dover fare: non conoscevo gli Ultravox o i Cure, anche se nel 1978 ero stato per un mesetto a Londra e avevo potuto vedere la coda del punk, che mi aveva affascinato e in qualche misura mi aveva spinto a capire cosa volessi fare nella vita.
Non sapevi nulla neppure della scena “sommersa” nazionale di quello stesso periodo? Underground Life, Gaznevada, Rats, il Great Complotto di Pordenone…
Vivevo nella mia provincia e non conoscevo altri spiriti per così dire affini. Nemmeno Faust’O, che ho incontrato quando, prima dell’uscita dell’album, ho fatto da spalla a Franco Battiato per il suo tour. Lo confermo, non avevo contatti con queste realtà: il mio mondo è nato con gli ascolti di David Bowie e Lou Reed quando venivano trasmessi alla radio.

Insomma, fermo restando che è possibile appartenere a una corrente artistica anche inconsapevolmente, chiunque definisca Garbo “un esponente della new wave italiana” non sa di cosa sta parlando o sta mistificando la realtà. Sia chiaro, in un’eventuale storia del fenomeno lo si può (e magari deve) menzionare, ma come esperienza “laterale”, come nota a margine. Che poi, con la sua notevole visibilità di massa, abbia potuto ispirare più gente di quanto abbiano fatto i Gaznevada o i Diaframma – cosa, questa, che è comunque difficile se non impossibile da verificare – è naturalmente tutt’altra faccenda.

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Black Snake Moan

Ho conosciuto Marco Contestabile, in arte Black Snake Moan, il 17 ottobre del 2019. Suonava a Roma, al Lanificio, e la performance mi folgorò, “costringendomi” a recensire il suo album appena uscito, il suo primo per così dire ufficiale; dell’esordio autoprodotto del 2017 non avevo purtroppo saputo nulla, ma recuperai quella sera stessa. Quello che scrissi del nuovo disco, a inizio novembre, si può leggere qui sotto; non solo confermo tutto, ma rileggendomi mi scopro molto soddisfatto, anche sotto il profilo formale, delle mie parole.

Phantasmagoria
(Teen Sound-La tempesta)
Le vie del blues sono infinite e il famoso diavolo lo si può incontrare persino al crocicchio della SS1 con la strada che conduce a Tarquinia, la storica cittadina del Viterbese che ventisette anni fa ha dato i natali a Marco Contestabile, alias Black Snake Moan. È infatti lui che, nascosto dietro una sigla da gruppo, si destreggia in perfetta solitudine – anche dal vivo – tra batteria essenziale, chitarra, tastiere e voce, affrescando canzoni collocabili in un luogo sospeso tra folk e psichedelia con qualche vago aggancio all’avant-rock. Il passo avanti compiuto rispetto al comunque ottimo Spiritual Awakening, autoprodotto un paio di anni fa in una stampa in vinile di appena trecento copie numerate, è significativo: il nuovo disco offre un sound meno asciutto e più ammaliante nelle sue rifrazioni estatiche, nelle sue vampate esoticheggianti, nelle sue melodie seduttive ben coniugate a ritmiche più o meno incalzanti, nelle sue atmosfere avvolte in una foschia mai opprimente, nel suo approccio generale per così dire “sciamanico”. Tutto molto intenso e visionario: musica da trance, ipnotica e ieratica, che induce a guardarsi dentro; e che sparge attorno a sé fragranze di terra, di natura, di incenso.
(da Blow Up n.259 del dicembre 2019)Black Snake Moan, che si è battezzato così ispirandosi a un country-blues di Blind Lemon Jefferson (That Black Snake Moan del 1926, a sua volta figlio di un altro brano, Black Snake Blues, inciso sempre nel 1926 da Victoria Spivey), non ha ancora confezionato il suo terzo LP (comunque in fase di pianificazione), ma negli ultimi mesi si è riaffacciato sul mercato con due 45 giri: Revelation & Vision (Dead Music/Tufo Rock), cinquecento copie in vinile arancione marmorizzato, pubblicato l’8 giugno 2022, e Fire & What You See che ha visto la luce per l’americana Hypnotic Bridge lo scorso 31 marzo. Lo stile rimane legato al blues psichedelico ipnotico ed evocativo, ma i singoli sembrano mettere in evidenza una lieve accentuazione dell’elemento lisergico, un’accresciuta verve compositiva e una maggiore cura per la resa sonora; da segnalare come ulteriore novità l’inserimento a piano basso e tastiere di Gabriele Ripa, che ha portato alla decisione di Black Snake Moan di proporsi in concerto, all’occorrenza, come duo e non solo come “one man band”. Belle notizie, insomma, per un musicista di talento e di respiro internazionale, che non a caso ha già raccolto consensi fuori dai nostri angusti confini.

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Eugenio Finardi (1975-1979)

Ieri sera sono andato a vedere Eugenio Finardi in Euphonia Suite, progetto condiviso con il pianista Mirko Signorile e il sassofonista Raffaele Casarano: uno spettacolo di grande bellezza, fragile e intenso allo stesso tempo, imperdibile per ogni “finardiano”. Sull’onda dell’emozione, ho così pensato di recuperare dall’archivio un ampio stralcio (la versione integrale è nel mio libro Voci d’autore) di un lunghissimo articolo-intervista realizzato nel 2005 per il Mucchio Extra sulla base di una chiacchierata di quattro o cinque ore nella quale Finardi – il periodo era quello di Anima blues– ripercorse la sua intera carriera fino ad allora. Lo stralcio in questione riguarda gli anni ’70, dal primo al quinto LP, e ritengo sia davvero interessante.

Musica ribelle
A Milano vivevo in questa realtà di Movimento della quale faceva parte anche Demetrio Stratos degli Area, che avevo conosciuto alla Numero Uno; lui era una specie di ponte tra la generazione dei più anziani e quella di noi giovani, e poi era un altro semi-apolide come me… un greco nato ad Alessandria e cresciuto con il mito del rock e del blues che viveva a Sassuolo… mi aveva adottato come un fratellino. Fu Demetrio a portarmi a conoscere Gianni Sassi, il deus ex machina della Cramps. A differenza di mio padre, che era un vecchio liberale conservatore con il quale per forza di cose litigavo da matti, Gianni era una figura incredibilmente stimolante: ti raccontava di Duchamps o di Giotto, ti dava un libro da leggere e in qualche modo ti influenzava, tanto che rientrato a casa ti trovavi automaticamente a scrivere. In studio mi ha sempre dato carta bianca, voleva solo che non gli rompessi le palle per le copertine. Da buon pubblicitario mi ha creato l’immagine, che però non corrispondeva proprio alla realtà: davo l’impressione di un figlio del popolo, di un meccanico dell’hinterland milanese, e parecchi storcevano la bocca nello scoprire che non era così. D’altronde io non riuscivo proprio a essere rigoroso e triste come i “colleghi” cantautori, e in più ero borghese, americano e rock; si sa, la cultura di Sinistra non è mai stata molto rock e ha sempre sospettato della musica in quanto musica… ai festival dell’Unità ancora mi succede, dopo trent’anni di militanza e di sostegno della causa, che qualche organizzatore mi guardi storto”.

Svincolato senza problemi dalla Numero Uno, Finardi si lega dunque alla Cramps, etichetta davvero fuori dai canoni del mercato convenzionale che ha come alfieri gli Area e che appoggia proposte rock, d’avanguardia, filo-jazz e cantautorali quanto più possibile creative. Nell’estate del 1975 arriva così Non gettate alcun oggetto dai finestrini, “summa” delle idee elaborate assieme ad Alberto Camerini e messe in bella copia con l’aiuto di musicisti di valore come lo stesso chitarrista, la sezione ritmica Hugh Bullen/Walter Calloni e il violinista Lucio Fabbri (e c’è pure Battiato, accreditato con lo pseudonimo Franc Jonia, al synth VCS 3). “Ai tempi avrei parlato di collettivo, ma in verità il suono era mio e di Alberto. L’atteggiamento di base era quello della “jam controllata”, ancor oggi distintivo della mia musica. Non mi interessa una creazione intellettuale complessa, di tipo romantico, bensì un veicolo tramite il quale portare emozioni collegate in diretta; cerco la verità emotiva dei musicisti, ci tengo a farli esprimere al loro meglio tirandone fuori la cifra, e miro infatti a trovare persone che suonino in un certo modo e a gestirne le dinamiche”. Coprodotto da Finardi, Camerini e Massimo Villa, il disco allinea sette pezzi mediamente lunghi in bilico tra rock e jazz/fusion, con qualche accento pop, qualche dilatazione di gusto prog e testi che pur mettendo in primo piano l’impegno non mancano di soluzioni atipiche, specie per gli standard seriosi del “giro”: emblematica la Se solo avessi d’apertura, fin dalla prima strofa “Se solo avessi un Kawasaki / allora sì che mi farei tutte le donne che vorrei”. “Naturalmente volevo essere ironico, ma pochi lo hanno capito. Allora quasi tutti facevano gli ermetici, mentre io esprimevo i concetti con chiarezza, pane al pane e vino al vino. Ho sempre odiato i dogmatismi, le liturgie, le recite… in questo sono assolutamente americano, penso al contenuto, al succo. Qui in Italia, ma non solo qui, regnano luoghi comuni devastanti, che hanno soffocato il senso critico: manca il coraggio della verità intellettuale e di quella emotiva, e ciò alimenta la rabbia elettrica della mia musica“. Non c’è tantissimo rock’n’roll, in Non gettate alcun oggetto dai finestrini: a ben vedere, gli unici pezzi incalzanti – i due di maggiore durata, paradossalmente – sono la summenzionata Se solo avessi, sorta di trait d’union tra Area e Premiata Forneria Marconi, e la cover marziale/rurale di Saluteremo il signor padrone. Qualche lampo accende Quando stai per cominciare (una ballata contro il servizio di leva) e La storia della mente, cofirmata con Claudio Rocchi e tendente alla psichedelia, mentre più soffici e avvolgenti sono Taking It Easy (unico episodio in inglese: un vezzo, se così lo si vuol definire, al quale il Nostro di rado rinuncerà), Caramba(dedicata a un ipotetico, giovane tutore dell’ordine, visto come uomo e vittima invece che come nemico) e Afghanistan, piccolo inno scuoti-coscienze composto a quattro mani con il solito Camerini. A dispetto delle inevitabili ingenuità, un esordio più che promettente, che pur non raccogliendo consensi unanimi lancia il suo titolare sul proscenio rock-pop nazionale: dal “battesimo” al Parco Lambro del 1975 i concerti fioccano (fondamentali i tour di spalla a Fabrizio De André e P.F.M.), in parallelo all’attività di conduttore dalle frequenze di Radio Milano Centrale, una delle prime emittenti “libere” che in quei mesi nascono come funghi in tutt’Italia. Dal bisogno di una sigla caratterizzante per il programma scaturisce quindi La radio, dinamica e deliziosa filastrocca che da allora è un vero tormentone dell’etere (“L’ho scritta in tram credendo che sarebbe durata due settimane, e invece… Fu Sassi a dirmi di metterla su disco ed è diventata una specie di condanna: è carina, ma non è esattamente la mia cosa della quale vado più fiero”); un tormentone quasi quanto Musica ribelle, la traccia che la precede all’inizio della scaletta del nuovo album Sugoe che certifica il passaggio di Finardi da emergente a stella di prima grandezza (“È una costruzione ideologica, parte da un assunto: non era una canzoncina ma uno sviluppo di Saluteremo il signor padrone. Mi piacerebbe che recuperasse il significato originale invece di essere una sorta di icona che oltretutto ha condizionato la percezione di me: qualsiasi cosa abbia fatto in tutti questi anni, rimango quello della musica ribelle”). Più concreto al paragone con il debutto, ma assai più surreale nella copertina, Sugo esce nella primavera del 1976 e fotografa un artista maturato, circondato da compagni eccelsi (ancora Calloni e in qualche occasione Bullen, ma pure Patrizio Fariselli e Ares Tavolazzi degli Area) e forte di dieci brani più concisi, all’efficacia dei quali contribuisce quel Lucio Fabbri con cui Eugenio divide anche l’alloggio (“Dopo il mio pur relativo successo Camerini si era un po’ staccato da me. Lucio, che oggi è non a caso arrangiatore e produttore, ragiona più in termini di canzoni, e nonostante collaborasse al songwriting meno di Alberto, lavorare con uno con la mentalità alla McCartney mi ha orientato in quella direzione”). Oltre alla sanguigna Musica ribelle e all’aggraziata ma scoppiettante La radio, l’album contiene varie altre perle come le incalzanti Soldi e Voglio (“Un pezzo estremamente mio, molto indicativo della mia attitudine alla musica”), la più leggera ed evocativa Oggi ho imparato a volare (“Per me volo è sempre stato sinonimo di liberazione, anche se il doppio senso con la droga – leggera, però – è fin troppo chiaro”) e la cupa e rarefatta La paura del domani, che sulla scia delle vecchie Afghanistan o Se solo avessicostituisce un brillante esempio di quelle “canzoni educative” assai frequenti nella poetica finardiana. “Ho sempre avuto un senso morale di quel che canto, sapendo che sarà ascoltato. Ho sentito la responsabilità di non essere un cattivo maestro e difatti sono stato anche accusato di moralismo a causa del finalino positivo di parecchi miei testi, che volevo fossero come dei dazebao: immediatamente comprensibili ed emozionali. Adesso, quando interpreto uno di quei brani, mi sento un po’ predicatorio, ma in fondo l’immagine da “preacher” non mi dispiace. Molti miei fan sono migliori di me perché hanno dato retta alle mie parole invece di imitarmi… Senza dubbio ho avuto una vita molto spericolata, ma senza essere mai laido e rimanendo pulito: nelle mie canzoni non ci sono “fai male”, “spara” o “uccidi”, bensì “ascolta”, “ragiona”, “capisci”. Sono contento di avere un’età perché questo mi dà l’autorevolezza di dire certe cose, la stessa autorevolezza che possedeva mio padre – che inevitabilmente porto dentro di me – e la stessa autorevolezza che provavo ad esprimere all’epoca, dato che mi sentivo proprio come adesso”.

Consacrato dall’ultima edizione del Parco Lambro (la Musica ribelle lì eseguita è nel 33 giri-cartolina dell’evento, marchiato dalla Produttori Associati) e da vendite considerevoli, Sugo è seguito nel 1977 da Diesel, che vede all’opera gli strumentisti di sempre (ospiti di rilievo, in due brani ciascuno, il redivivo Camerini e Paolo Tofani – un altro Area – che firma anche la produzione) e vanta un repertorio persino più ispirato ed eclettico. “Considero Diesel, assieme a Sugo, il mio capolavoro: la differenza principale è che questo è più jazz laddove quello era più rock. Rimane però quella che io chiamavo ‘ventosità’, il tempo di Musica ribelle o Voglio: su e giù all’interno di un galoppo, sedicesimi che aiutano a sostenere l’italiano, tensione in avanti. Io volevo qualcosa che avesse lo spirito, la propulsione e la cattiveria del rock ma che fosse italiana nei contenuti e nei suoni: ecco dunque il mandolino o il maggiore con il violino. Pensavo a una musica “nostra” per il mondo, e magari se il progetto della Cramps non si fosse interrotto l’obiettivo si sarebbe anche potuto centrare: l’Italia ha perso il treno proprio in quegli anni, scegliendo la disco music invece del r’n’r”. Come per l’esordio, il recidivo Eugenio apre le danze con Tutto subito, un pezzo tanto energico quanto incompreso (“È un altro dei miei tentativi, fallito miseramente, di essere spiritoso”), e prosegue con altre otto gemme l’una diversa dall’altra nelle atmosfere così come nei temi affrontati: Scuola e Non diventare grande mai appartengono al filone “predicatorio”, Si può vivere anche a Milano è una dichiarazione d’affetto per la propria città (“Quello era un momento vivacissimo: l’estate del ‘76, che si è protratta fino al ‘77, è stata un po’ la “Summer Of Love” milanese, o addirittura italiana”), Zucchero e Non è nel cuore parlano con intelligenza d’amore (“E giù accuse di ‘tradimento’… sono questi i luoghi comuni che non sopporto: Non è nel cuore, come canzone, era persino più rivoluzionaria di Musica ribelle”), la “ventosa” e solenne Giai Phong è incentrata sul Vietnam (“Veniva dalla lettura del libro di Tiziano Terzani. La Storia ha poi dimostrato che la realtà era molto meno romantica e positiva di come volevamo immaginarla, ma non è l’utopia a essere sbagliata: l’idea in sè non ha deluso, lo ha fatto la sua applicazione”). Di livello superiore, almeno sul piano strettamente compositivo, sono infine la jazzata title track, uno splendido omaggio alla vita “on the road” (“È in qualche modo derivata da una canzone sudamericana, Il funerale del lavoratore: il concetto è quello del contadino che ha tutta la sua vita nella terra e quando muore ci viene sepolto dentro. Mi sono così chiesto quale fosse “la terra” del musicista, e ho concluso che era la strada tra un palco e l’altro”) e la drammatica Scimmia, intensissima nel suo crudo raccontare – con il solo limite di una “morale” troppo semplicistica – l’odissea della tossicodipendenza da eroina (“Mi fa tuttora venire i brividi e fatico a sentirla, specie nella parte centrale. Credo che il testo si commenti da solo: è un diario specifico inserito nel più ampio contesto della mia storia personale, una testimonianza molto bella di una cosa che bella non è… soprattutto visto quanti, amici e non, ci hanno lasciato le penne. Col senno di poi, non so se la riscriverei”).

Se Sugo era stato l’album del lancio, Diesel è quello del consolidamento della posizione centrale di Finardi nel rock italiano. Ma non sono, come sembrerebbe, tutte rose e fiori. “Per me non era facile, in quegli anni. Mi hanno danneggiato la macchina sotto casa, ho avuto minacce di morte, per non parlare degli autoriduttori ai concerti: a Padova, roba che a raccontarla oggi rischi di farti prendere per matto, ci hanno persino sparato sul palco. Io non ero preparato, ero troppo giovane: il successo dovrebbe arrivare dopo, verso i trent’anni, quando si ha la maturità per potersi gestire in modo adeguato, come ha fatto Ligabue. Inoltre, c’era il discorso economico: dai tempi della mia prima tournée con Fabrizio De André ero sempre in giro per concerti, e sempre guadagnando pochissimo perché – per questioni di coerenza, di idealismo o di stupidità: era la filosofia di “non guadagno” del giro Cramps – chiedevo la paga di un qualsiasi operaio specializzato. Si calcolavano le ore da quando uscivo da casa a quando vi rientravo, più le spese. Ho fatto date da ventimila persone mettendomi in tasca un milione di lire“. Ad aprire gli occhi a Eugenio e a indurlo a chiedere il giusto sono i ragazzi della sua nuova band Crisalide, ingaggiati dopo che Lucio Battisti si era impossessato di Bullen e Calloni (“Fu la fine dell’originario suono Finardi”): Stefano Cerri al basso, Mauro Spina alla batteria, Ernesto Vitolo alle tastiere e Luciano Ninzatti alla chitarra, con i quali nel 1978 è approntato Blitz. “È un disco che butterei via. Ragionandoci adesso, lì avrei dovuto mollar tutto e fare Anima blues, ma mi è mancato il coraggio”. Troppo impietoso con se stesso, il Nostro, e soprattutto con un album che pur lamentando carenze di “ventosità” e risultando magari eccessivamente pulitino mette in fila otto brani per lo più di pregio, che non a caso verranno in larga parte rielaborati negli anni a venire: brani che nulla aggiungono (e qualcosa tolgono) all’espressività dell’artista, ma che comunque sono considerati tasselli importanti del suo repertorio storico. Affetto e Come un animale danno spazio all’intimismo, la “politica” Cuba gioca con sonorità caraibiche così come la Drop Out Rock in inglese lo fa con le “radici”, Guerra lampo e Op.29 in do maggiore – quasi rimosse, chissà perché, dalla memoria collettiva – uniscono r’n’r più o meno grintoso e “morali”, la Northampton, Genn. ‘78 sostenuta dagli archi è nel contempo una rappacificazione con il padre e un’autoaffermazione della propria raggiunta maturità (“Ero tornato per qualche mese negli Stati Uniti, l’ho scritta lì; all’epoca ci credevo sul serio, mentre ora mi rendo conto che ero molto meno adulto ed equilibrato di quanto pensassi”). E poi c’è la celebre Extraterrestre. “È nata dalla mia passione per la fantascienza ma anche dalla situazione dei miei amici Carlo Massarini e Chicco Martini, che pur essendo dei privilegiati – Carlo abitava in un attico bellissimo, indipendente dall’appartamento dei genitori – erano sempre insoddisfatti e avrebbero voluto trovarsi altrove; è dedicata a chi sogna di essere chissà dove e non apprezza quindi ciò che ha. Strutturalmente era un tentativo di confezionare un hit sullo schema di Musica ribelle, ma non funzionò… è buffo che tutti la ricordino come un clamoroso successo, quando invece Blitz vendette ventiseimila copie: una miseria rispetto a Sugo o Diesel, che a quanto mi risulta – non ho dati precisi – giunsero attorno alle duecentomila. Si erano creati problemi di distribuzione che io imputai a Sassi, con il quale c’erano già tensioni perché non avevo mai visto una lira. Così lui, capendo di non potermi più governare, mi cedette alla Phonogram con tutto il mio catalogo: nelle riedizioni Cramps, infatti, io non ci sono, o ci sono su concessione, perché sono l’unico dell’etichetta a essere stato “girato” a una multinazionale“.

Nel 1979 Finardi consuma così il definitivo “tradimento” con Roccando rollando, presentato con una copertina di dubbio gusto (“La fece Mario Convertino e a differenza di quella di Blitz mi piaceva, la trovavo psichedelica. Alla luce di Anima blues non è nemmeno tanto fuori tema, con quell’idea del cowboy metropolitano…”) ed edificato su sonorità nel complesso più soffici, accompagnate da testi che legittimano accuse di imborghesimento e abiura del passato (eloquenti in tal senso 15 bambini, Lasciati andare e Ridendo scherzando, i pezzi più criticati dai vecchi fan). “È un disco più morbido, volevo fare rock’n’roll ma con un’indole diversa, un po’ come oggi Cremonini o i Negrita. Il mio pubblico, però, era ancora giovane e incazzato, e non poteva accettarlo. Era un periodo particolare: mi ero lasciato con la Elia (la compagna “storica” citata in Non è nel cuore, NdA) e istantanemente era arrivata Patrizia, i musicisti – gli stessi di Blitz – erano più “jazzaroli” e “fusionari”, lo studio Stone Castle di Carimate offriva opportunità eccezionali e io ho sempre amato lavorare sui suoni… e poi le corde vocali erano molto rilasciate, perché i miei problemi di salute si riflettevano anche sulla voce“. Tra i momenti più significativi sono da citare la nostalgica e disillusa Zerbo, la delicatissima Legalizzatela (“Incredibile che ventisette anni dopo sia ancora di attualità. Il discorso sulle droghe è molto difficile, ma credo si debba accettare il fatto che una certa percentuale di esseri umani ha bisogno di assumere qualche tipo di sostanza, ha bisogno di questo tipo di rituali”) e La canzone dell’acqua, elemento che come e più dell’aria ritornerà spesso in futuro: “Il liquido si adatta ma non è comprimibile, non è contenibile se non accettandolo. È una fantastica metafora di come mi sento io: non ha forma ed è aperto a ogni opzione. Sono legatissimo all’acqua: faccio immersioni, vela… Ho anche volato ultraleggero, ma quando si vola l’aria è come un fluido: ho smesso di volare quando ho scoperto le immersioni, perché sono il massimo del volare: il mare è lo spazio e tu sei senza gravità”.

Nel 1979, però, le ali sono tarpate dalle contingenze. “Con la morte di Demetrio, la mia idea di Movimento – quella del Lambro: una visione psichedelico-umanista, e non marxista o militarista, della rivoluzione – poteva dirsi naufragata. Avevo guai personali, subivo contestazioni a ogni concerto, gli anni dell’utopia erano ormai di piombo. Mi sentivo perseguitato, tirare avanti non era facile e io facevo di tutto per rendermelo più complicato”. L’umore di Eugenio è tutto nella prima strofa de La canzone dell’acqua: “Stasera ho chiesto al caso che cosa devo fare / sono stanco del mio ruolo e ho voglia di cambiare / non so se andare avanti o se è il caso di scappare / o se è solo il bisogno di un nuovo sogno da sognare”. Il caso risponderà alla domanda.
(da Mucchio Extra n.19, autunno 2005)

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Indiesfiga story (2)

All’inizio del 2018 Riccardo De Stefano mi chiese se avessi voglia di inventarmi una rubrichina fissa per ExitWell, il free magazine da lui diretto; di norma non lavoro gratis se non per me stesso, ma gli amici sono amici e gli dissi di sì. Avevo del resto un’idea più o meno ispirata da questa serie di recensioni: una storia a puntate del cosiddetto Indiesfiga, sottotitolata “Note semiserie sulla musica che (purtroppo) gira intorno”. Ne uscirono otto episodi e il nono, già scritto, rimase inedito perché la rivista cambiò impostazione, ma se la cosa fosse continuata sarebbero stati molti di più. Ho pensato allora di recuperare quanto già esistente qui sul blog, in due parti (qui la prima) lasciando tutto esattamente come era in origine, ovvero con i riassuntini delle puntate precedenti dai quali una pubblicazione “seriale” non poteva certo prescindere. Qui le puntate dalla quinta alla nona, e chissà che un giorno non mi venga voglia di andare avanti con il racconto…

(5) Dopo quattro puntate sui prodromi del fenomeno, nelle quali ho tracciato una sorta di cronologia culminata con alcune considerazioni sulla crucialità del “MI AMI” nel processo che ha condotto alla metamorfosi dell’indie in indiesfiga (quasi come nella de-evolution teorizzata illo tempore dai geniali Devo), è arrivato il momento di illustrare meglio cosa si intenda con il termine che intitola questa rubrica. Molti me ne attribuiscono la paternità, ma non sono in grado di confermare o smentire. In precedenza l’avrò utilizzato di sicuro in un forum, ma la prima volta ufficiale è stata nel n.665 (dicembre 2009) del defunto Mucchio Selvaggio, occupandomi del disco d’esordio del gruppo che sarebbe servito da trampolino di lancio a Ermal Meta. Avevo inquadrato la musica dei ragazzi come “una versione patinata e furbetta del più tipico indiesfiga, sospesa da qualche parte tra i Coldplay e il Moltheni meno narcolettico” e non me lo rimangio; aggiungerei solo, per onestà intellettuale, che paragonata a certi abomini attuali la band – dotata di un nome, La fame di Camilla, perfetto per evocare immagini di raggelante mestizia – fa la figura dei Beatles del White Album. Anni dopo volli recuperare la recensione nel mio blog e il 5 giugno del 2013, in un post chiamato appunto con l’ormai famosa parolina, introdussi il tema con queste poche righe: “L’indiesfiga è qualcosa che porta gli adepti a credersi parte di una casta eletta, a ritenere figo scrivere e cantare (spesso ragliare) brani sciatti e lamentosi a base di chitarrine e/o tastierine, a guardare con nostalgia i propri vent’anni pur essendo venticinque/trentenni, ad avere una concezione un bel po’ distorta di ciò che è cool in fatto di abbigliamento, eccetera eccetera eccetera”.
Non posso smentire me stesso, ma è ovvio che se cinque anni e mezzo fa la pur abbozzata definizione era perfettamente calzante, oggi ha meno senso: al tempo avevamo solo toccato il fondo, mentre ora si è scavato, e molto. Una buona fetta di quanto allora enunciato rimane però valida, eccome, ma prima di addentrarmi nella stesura del bestiario dei nostri giorni – lo so che attendete tutti di leggere di Calcutta, Gazzelle, Thegiornalisti e compagnia (non tanto) bella, ma abbiate pazienza – dovrò ancora raccontare varie vicende dell’inizio del decennio in corso, decisive nel bene e nel male per il presente. Le tappe piacevoli non mancheranno, ma per il resto dovrò e dovrete affrontare una sfinente, dolorosissima Via Crucis. Sappiatelo.

(6)Interpretati con voce sgraziata/lamentosa e piacevolmente bizzarri nel loro minimalismo in chiave lo-fi peraltro ricco di estro, i nove episodi (compresa bonus track) dell’album vantano testi in linea con la surrealtà dell’approccio generale: volendo tracciare qualche coordinata in più, si potrebbe parlare di pop-folk sgangherato e stranito, attitudinalmente e stilisticamente mediano fra Tricarico e il primo Bugo”. Così scrivevo nel 2011 a proposito di Non sei più, il terzo disco (diffuso solo in free download) di Sebastiano Pupillo alias Babalot, cantautore romano d’adozione che da un po’ sembra essere stato tirato fuori dalla metaforica tomba nella quale lui stesso aveva deciso di seppellirsi (dal 2015 è pure in circolazione un nuovo lavoro, Dormi o mordi). Nessuno stupore: come si desume dalle mie parole d’antan, che ripulite dai toni benevoli potrebbero riferirsi a più fenomeni indiesfiga dei giorni nostri, l’ormai ex pischello è stato al 100% un precursore del genere, così come lo sono stati i due musicisti – Bugo e Tricarico – indicati come suoi possibili riferimenti. Area proto-indiesfiga, insomma, proprio come Stooges e MC5 erano proto-punk… e che dio o chi per lui mi perdoni per l’irriguardoso paragone.
Prima di Non sei più, Babalot aveva realizzato altri due album in formato CD marchiati dalla Aiuola Dischi, Che succede quando uno muore (2003) e Un segno di vita (2005), che suscitarono una certa simpatia nel circuito alternativo; idem il motto della label bolognese, “etichetta pop piccola ma curata”, che evocava amabilissime immagini di artigianato e freschezza in piena sintonia con l’annaffiatoio adottato come logo. Escludendo i raffinati Non voglio che Clara, che nel catalogo dell’Aiuola facevano storia a sé, gli esponenti di quell’indie lì non coltivavano le ambizioni artistiche certo più elevate dei Giardini di Mirò o degli Yuppie Flu, ma non dispiacevano – o piacevano sul serio, agli spiriti affini – perché suonavano ingenui e inadatti a riscuotere consensi commerciali non di nicchia; tutto l’insieme era circondato da un’aura di sfiga (nel senso di inadeguatezza, disillusione, profilo basso), ma era sfiga autentica, non artificiosa, impermeabile a qualsiasi velleità di (pseudo) coolness. Più o meno come le prime uscite della Garrincha Dischi, anch’essa originaria del capoluogo emiliano… ma all’epoca dei suoi esordi si andava già verso la fine del decennio e si iniziava ad avvertire odore di bruciato, o quantomeno di bruciacchiato.

(7) Nel 2010 i social non solo non erano ancora l’immonda fogna di oggi, ma non erano nemmeno particolarmente influenti. Con i forum, i blog e i siti, la Rete aveva comunque già grande importanza ed erano in tanti a sfruttarla – con l’obiettivo di farsi notare, ovvio – intasandola di proposte artistiche, culturali, di entertainment e di puro cazzeggio; alcuni lo facevano in modo consapevole e “scientifico”, ma in linea di massima improvvisazione e naïvete regnavano sovrani. Dubito fortemente che il ventiquattrenne romano Niccolò Contessa avesse in mente un’autentica strategia quando nel giugno di quell’anno “lanciò” su SoundCloud (il primo pure su YouTube) l’impietoso I pariolini di diciott’anni e il più evocativo Wes Anderson, brani da lui approntati trasformando flash e pensieri del proprio quotidiano in testi “poetici” legati alle musiche essenziali ottenute armeggiando con elettronica povera. I pezzi avevano il loro perché e avrebbero potuto funzionare da soli, ma l’intuizione extra – nient’affatto rivoluzionaria, eh: si pensi ai Residents – fu di mantenere l’anonimato, lasciando che si ipotizzasse l’esistenza di una band – I Cani, come un gruppo punk di Pesaro degli anni ’80 – rappresentata ovunque solo da fotografie di… cani di ogni razza. La surreale idea piacque e le due tracce conobbero l’onore della viralità, con conseguente tam-tam del web e dei media convenzionali; sei mesi dopo, in una compilation natalizia in download gratuito, arrivò una terza canzone meno martellante e più morbida e nostalgica, Il pranzo di Santo Stefano.
L’identità di Contessa rimase ufficialmente nascosta fino all’uscita nel giugno 2011 del primo disco, marchiato dalla 42 Records e intitolato con astuzia e simpatica autoironia Il sorprendente album d’esordio de I Cani; io stesso intervistai il cantautore – perché Niccolò questo era, come dimostrato in seguito – con un sacchetto di carta in testa (la seconda parte è sempre lì, nel mio canaleYouTube). Com’è andata da lì in poi lo sappiamo tutti, e non credo di sbagliare affermando che l’esperienza I Cani – della quale non ho problemi a dichiararmi supporter, benché con qualche distinguo – sia stata una tappa fondamentale nel processo di degenerazione dell’Indie in Indiesfiga. Soprattutto per il ruolo ricoperto nella vicenda dal web, prima di allora mai rivelatosi così efficace (in Italia, certo) come strumento promozionale di realtà underground/alternative. Fu un po’ come scoperchiare il vaso di Pandora.

(8) Si dice che persone e tendenze possano essere considerate “popolari” quando diventano oggetto di satira. Accettando come buona la tesi, l’indie ottenne la patente di fenomeno di successo (“fenomeno di cesso, ma sempre fenomeno era”, op. cit.) nel 2012, con la pubblicazione su disco di una manciata di canzoni che lo celebravano. Erano celebrazioni giocate in modo differente ma sempre efficaci nel mettere in risalto, in modo ora velato e ora esplicito, alcuni aspetti discutibili del mondo musicale cosiddetto alternativo in cui i loro autori si muovevano; tutte assieme – ce ne saranno di sicuro altre, magari pure precedenti, ma questo “blocco” è significativo proprio per la concomitanza della diffusione – inquadrano a meraviglia molti elementi-base della materia analizzata nella nostra paginetta.
Majorindielosersuperstar di Amerigo Verardi e Marco Ancona (dall’album Il diavolo sta nei dettagli) e Ho poca fantasia di Nicolò Carnesi (da Gli eroi non escono il sabato, il suo esordio) sono canzoni concettualmente e poeticamente alte, che a loro modo “pungono” ma che non cadono nel ridanciano. Al contrario, Indiesposto degli U’Papun – da Cabron! – è spiritosa e, benché il testo sia piuttosto generico, rivela il suo bersaglio con il titolo, con qualche scampolo del videoclip e con alcuni versi che potrebbero irritare certi estremisti del politicamente corretto (“quest’anno indosso le scarpe da ballerina anche se sono chiattona”, per citare il più diretto). È invece impossibile equivocare Idroscalo, da Bacio battaglia di Fausto “Edipo” Zanardelli, una dedica al “MI AMI” della quale bisognerebbe riportare per intero il divertentissimo, caustico testo in cui affiorano gemme come “non andrò al MI AMI perché la cantante del mio gruppo non è abbastanza figa”, “non andrò al MI AMI perché ho già saputo ci va un’altra band che è simile alla mia ma loro son più magri” e “non andrò al MI AMI anche se quest’inverno in un locale che è gestito da un mio amico una volta ho aperto Dente”. L’apoteosi assoluta dell’autoreferenzialità indie è stata però toccata con Sono così indie de Lo Stato Sociale, da Turisti della democrazia: uno zibaldone di luoghi comuni del “circuito” che suscita sia ribrezzo e voglia di irrorare di napalm come nella scena iniziale di Apocalypse Now, sia ammirazione per l’autoironica sagacia con cui la non-band ha messo in atto il suo diabolico progetto di ascesa. Roba che non si può proprio liquidare in poche righe e sulla quale, inevitabilmente, si ritornerà il mese prossimo.

(9) Si era anticipato che questo mese la nostra piccola storia dell’indiesfiga avrebbe ripreso il discorso sul brano Sono così indie ed eccoci qui, anche se ovviamente è impossibile farlo senza spendere qualche parola sulla band che lo ha proposto, Lo Stato Sociale, famosa anche prima dell’exploit sanremese del 2018 con il tormentone Una vita in vacanza. Varato a Bologna sul finire del decennio scorso, il progetto aveva conquistato discreti consensi underground con due EP marchiati Garrincha Dischi, Welfare Pop (2010) e Amore ai tempi dell’Ikea (2011). La stessa etichetta, nel 2012, aveva pubblicato Turisti della democrazia, primo album contenente appunto Sono così indie: un pezzo spiritoso (massì!) che su una base synth-pop di rara banalità metteva (brillantemente) in fila, oscillando tra il serio e il faceto, un’infinità di luoghi comuni del circuito di riferimento del gruppo. Gruppo per il quale la musica era solo un pretesto per cazzeggiare (prima) e per “svoltare” (dopo, cioè una volta capito che l’idea poteva funzionare benissimo) allestendo un surreale teatrino citazionista che attingeva ispirazione da Skiantos e Offlaga Disco Pax.
La somma paraculata, della quale non si può non riconoscere la genialità, fu però il videoclip della canzone, realizzato interamente con un iPhone 4 e interpretato – riprese e voci – dai ragazzi e da un numero folle di protagonisti maggiori e minori dell’indie autoctono (ne cito solo alcuni andando a memoria: Federico Fiumani, UFO degli Zen Circus, 99 Posse, Marta sui Tubi, Giorgio Canali, Brunori Sas e Fast Animals And Slow Kids, ma c’è persino Caparezza). Una cosa che gli illustri ospiti avranno affrontato in totale scioltezza, per simpatia e per ridere, non immaginando nemmeno alla lontana che a breve quelle facce da schiaffi dalle quali erano stati coinvolti sarebbero diventati stelle del nuovo pop italico, ben più osannati e “ricchi” di quasi tutti loro. Nel momento in cui sto stendendo queste confuse righe, sul canale della Garrincha il video ha raccolto 326.552 visualizzazioni (oggi, 30 settembre 2022, sono 340.789), che in assoluto non sono poche ma che spariscono al confronto con i milioni di certa merda di provenienza “indie” che la mia tastiera si rifiuta persino di scrivere; al di là dei numeri, su quell’endorsement collettivo Lo Stato Sociale ha comunque fondato la notorietà e la “credibilità” che gli hanno consentito di diventare ciò che poi è diventato. “Un “fenomeno di successo / fenomeno di cesso / ma sempre fenomeno era”, per citare i maestri Squallor.
(continua?)

 

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Indiesfiga story (1)

All’inizio del 2018 Riccardo De Stefano mi chiese se avessi voglia di inventarmi una rubrichina fissa per ExitWell, il free magazine da lui diretto; di norma non lavoro gratis se non per me stesso, ma gli amici sono amici e gli dissi di sì. Avevo del resto un’idea più o meno ispirata da questa serie di recensioni: una storia a puntate del cosiddetto Indiesfiga, sottotitolata “Note semiserie sulla musica che (purtroppo) gira intorno”. Ne uscirono otto episodi e il nono, già scritto, rimase inedito perché la rivista cambiò impostazione, ma se la cosa fosse continuata sarebbero stati molti di più. Ho pensato allora di recuperare quanto già esistente qui sul blog, in due parti, lasciando tutto esattamente come era in origine, ovvero con i riassuntini delle puntate precedenti dai quali una pubblicazione “seriale” non poteva certo prescindere. Spero che leggerle vi diverta almeno quanto mi sono divertito io a scriverle.

(1) In giorni non troppo lontani, il termine “indie” – spesso legato a “rock” – veniva per lo più utilizzato per indicare musica bella e creativa opera di artisti che non avrebbero disdegnato un posto al sole ma che intendevano condurre il gioco secondo le proprie regole. In seguito, a cavallo tra secondo e terzo millennio, il vocabolo assunse significati più ampi, e qui da noi venne di solito associato a gruppi che per lo più cantavano in inglese e proponevano musica ispirata da band americane come Pixies, Sonic Youth e/o Pavement. C’era anche chi adottava l’italiano, ma al di là dell’idioma preferito per i testi le proposte “indie” erano appannaggio di una cerchia ristretta e (più o meno) eletta di appassionati, che ne esaltavano i valori reali o presunti e le innalzavano a sorta di autocompiaciuta antitesi al becero nazionalpopolare. Questo produceva un curioso effetto: tutti gli esponenti della categoria si lagnavano per gli scarsi riscontri ottenuti fuori dal circuito carbonaro, ma se per caso qualcuno riusciva a sporgere il capo oltre il muro del ghetto, su di lui piovevano immancabili accuse di tradimento e meretricio. Situazioni già viste, a conferma di come gli umani siano bravissimi a far finta di non vedere le lezioni della Storia.
Sia come sia, attorno alla metà dello scorso decennio la parolina derivata da “independent” – le piccole strutture discografiche che a partire dal periodo punk e dopo-punk sostenevano l’underground, ponendosi come alternativa alle major – cominciò a diventare sinonimo di altro: persino di fenomeno generazionale, con le sue norme di condotta sociale (buffi dress code compresi) e di ascolti giusti/sbagliati. Arduo identificare con precisione il punto di non ritorno, ma un evento cruciale fu l’uscita – era il maggio del 2008 – di Canzoni da spiaggia deturpata, il peraltro validissimo e a suo modo geniale album d’esordio de Le Luci della Centrale Elettrica. Quando l’angosciata e angosciosa quotidianità narrata da Vasco Brondi in brani tanto sgraziati e visionari quanto evocativi approdò al successo quasi di massa, nulla fu più come prima, e in un attimo quella che voleva essere catarsi da sfiga cosmica si trasformò in celebrazione della sfiga stessa. A Brondi non si possono imputare colpe, ma il pluricitato verso dalla sua “La lotta armata al bar” – “che cosa racconteremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni Zero”, ovviamente – è un’ottima base di partenza per riflettere su questi cazzo (o magari stracazzo?) di anni Dieci.

(2) Come visto il mese scorso, l’uscita nel maggio del 2008 del primo album di Vasco Brondi/Le Luci della Centrale Elettrica (Canzoni da spiaggia deturpata) è stata il “big bang” del processo di conversione dell’indie rock italico da fenomeno solo musicale a realtà di assai più ampia risonanza, sia in termini di attenzione da parte dei media generici e di una platea non più di ultranicchia, sia per quanto riguarda le presenze ai concerti e i dischi venduti. Con naturalezza e suo malgrado, l’allora ventiquattrenne ferrarese d’adozione si era trovato a indossare i panni del portabandiera di una nuova “generazione di sconvolti che non ha più santi né eroi”, per dirla con il Vasco più famoso, e a raccogliere dunque un consenso vasto e trasversale. Merito del sound agrodolce e soprattutto dei testi all’insegna del cut-up caro a William Burroughs (e al giovane Manuel Agnelli), fascinosi ed efficaci nel loro lucido delirio di citazioni e immagini d’impatto; differentemente da quanto verificatosi con altri esponenti del nostro indie che in passato avevano destato scalpore anche fuori dal ghetto, ovvero gli Offlaga Disco Pax di Socialismo tascabile (2005) e Il Teatro degli Orrori di Dell’impero delle tenebre(2007), il suo flusso di coscienza – comunque “colto” – colpiva dritto il bersaglio senza bisogno di filtri intellettuali. Lo stesso sarebbe a breve accaduto con Dente, esploso con il terzo album L’amore non è bello (2009), che di Brondi può essere considerato un “gemello diverso”; chi pensi che l’accostamento sia forzato, si ricreda ascoltandoli eseguire assieme proprio la Siamo solo noi sopracitata in Deviazioni, compilation-tributo a Vasco Rossi allegata nel 2008 alla rivista “Mucchio Extra”.
Non è quindi errato vedere in Dente e in Brondi i prototipi (involontari e incolpevoli, sia chiaro) di una buona parte dell’indie odierno e, per forza di cose, del suo fratello degenere denominato scherzosamente (?) “indiesfiga” di cui attraverso questa colonnina seriale vorremmo presto o tardi riuscire a disegnare un credibile identikit. In quei lontani giorni del 2008/2009 non si poteva certo immaginare da quali calamità saremmo stati travolti quando quelle espressioni sincere e se vogliamo coraggiose di due personalità atipiche – in apparenza poco commerciabili, quantomeno sulla lunga distanza – sarebbero divenute canone da imitare per cercare di conquistare un quarto d’ora di pseudo-gloria. Dente e Brondi avevano già detrattori e hater, ok, ma nessuno li reputava portatori sani di un terribile virus.

(3) Sebbene si sia arrivati alla terza puntata, di “indiesfiga” propriamente detto non si è parlato, né lo si farà qui; non si è infatti ancora conclusa l’analisi dei prodromi del fenomeno, avviata focalizzando l’attenzione su Le Luci della Centrale Elettrica e Dente. A favorire ulteriormente la propagazione della piaga fu l’uscita nel giugno 2009 di Vol.1, il debutto di Dario Brunori in arte Brunori Sas, ennesimo cantautore “nascosto” – lui meno di altri: almeno, ci ha messo il (cog)nome – dietro una sigla da band. Edito dall’etichetta indipendente Pippola Music, l’album ottenne il plauso pressoché unanime della critica – Premio Ciampi e Targa Tenco come migliore esordio dell’anno, mica bruscolini – e servì da base per un lungo tour con il quale l’allora quasi trentaduenne cosentino acquisì popolarità fuori dal circuito “alternativo” e non solo al suo interno.
Essenziali e un po’ ruvidi, quei brani di Brunori vantano testi efficacissimi nel dipingere quadretti di vita vissuta intrisi di maggiore o minore nostalgia, a loro modo poetici e più ponderati/ricercati di quanto si potrebbe ritenere di primo acchito. Testi che suscitano istintiva simpatia – come il loro autore, che sul palco sa sempre essere comunicativo e divertente – e che conquistarono tanti anche per il modo apparentemente senza filtri con il quale venivano intonati, talvolta con un approccio graffiante e “sgarbato” che fece fiorire paragoni non pretestuosi con il corregionale Rino Gaetano, vivissimo nella memoria collettiva a dispetto della prematura scomparsa nel 1981. Può sembrare bizzarro, ma il successo di quel Brunori lì – comprensibilmente diverso da quello attuale, assai più maturo – accese nella mente di troppi suoi aspiranti colleghi la temibilissima scintilla dell’emulazione, la sindrome del “se è andata bene a lui, perché non potrebbe capitare a me?”. La risposta logica da darsi sarebbe stata “perché lui ha talento e tu no, mezza sega, trovati un lavoro vero invece di sognare una carriera da artista”, ma disgraziatamente la storia degli ultimi anni ha dimostrato che il talento, pur non essendo un optional superfluo come l’accensione automatica dei tergicristalli dell’auto, non è indispensabile come sarebbe sacrosanto che fosse. Probabile che Dario Brunori, o Brunori Sas che dir si voglia, non si sia reso conto dei danni causati e questo, assieme alle medaglie poi conquistate con merito sul campo, lo deve esentare dall’essere bersaglio di eventuali censure al grido di “dagli all’untore!”.

(4) Il processo che da “Indie” ha condotto a “Indiesfiga” non ha avuto come detonatore solo l’attività di alcuni artisti che facevano il loro e certo non potevano prevederne i tragici sviluppi. Occorreva un vessillo-stendardo-gonfalone sotto il quale raccogliere quanti di sfiga erano portatori sani e di solito inconsapevoli, affinché scoprissero di essere tanti – “saltellanti, scintillanti, sorprendenti“, come cantava nel 1978 Alberto Camerini – e di conseguenza fichi/fighi/cool, singoli elementi di un movimento di pensiero (lo so, fa ridere, ma è per capirsi) che predicava senza dirlo esplicitamente uno stile di vita diverso-buono-giusto-bello. Una volta creata la “bandiera”, il polo di aggregazione, una macchina della propaganda oliata a dovere avrebbe ampliato rapidamente la moltitudine – è noto: tutti affermiamo di voler essere solo noi stessi, ma poi ci irreggimentiamo dovunque – e innalzato allo status di semi-divinità, con tutti i relativi vantaggi pratici, gli ideatori nonché detentori della sacra fiaccola. Nulla di nuovo, insomma.
Per quanto concerne il nostro Indiesfiga, il catalizzatore totemico fu il “MI AMI”, emanazione del sito più seguito e importante tra quelli che si interessano di musica italiana, Rockit.it: un festival speculare a quelli esteri, con più giornate, più palchi e più situazioni parallele, ma dedicato esclusivamente alle realtà più o meno alternative del Paese che sembra una scarpa. Una rassegna così poteva funzionare solo a Milano, la città delle mode/tendenze/trend, e infatti il “MI AMI” – acronimo per “Musica Importante a Milano” – fu lanciato proprio lì. Il fatto che ciò sia avvenuto nel 2005, quando “Indie italiano” e “business” erano ancora parole che non potevano stare nella stessa frase, mi fa pensare che gli organizzatori fossero guidati da nobili propositi culturali e non fossero geni del male. Non ho mai voluto indagare sul serio perché i ragazzi di Rockit – che oggi ragazzi non sono più tanto – mi sono da sempre cari, anche se devo ammettere che lo slogan “il festival della musica bella e dei baci” – trovata di marketing brillante, non ci piove – mi provoca violenti attacchi di orticaria dalla prima volta che mi è apparso sotto gli occhi. Si sa che le strade dell’Inferno sono lastricate di buone intenzioni e dunque è andata com’è andata. Senza il “MI AMI” l’Indiesfiga si sarebbe propagato ugualmente ma forse sarebbe stato meno infestante; o magari no, ma comunque sarei molto curioso di sapere cosa sarebbe accaduto se…
(continua)

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