Articoli con tag: garage & psichedelia

Gun Club (1982)

Uscito il 20 settembre 1982, il secondo LP dei Gun Club mi arrivò appena in tempo per essere recensito nel numero di novembre del defunto Mucchio Selvaggio. Lo reputo ancora oggi un capolavoro e, dunque, quanto scrissi all’epoca con tutto l’entusiasmo, la forma legnosa e un pizzico di non tanto giustificata saccenza dei miei ventidue anni non mi meraviglia affatto.

Miami
(Animal)
Abbandonata la Ruby a favore della neonata Animal Records di Chris Stein, i Gun Club tornano su vinile con il loro secondo LP, a seguire lo strepitoso debutto Fire Of Love. La conferma che tutti attendevamo è giunta puntuale e inequivocabile, giacché Miami si rivela un signor disco, valido almeno quanto il suo predecessore, e per di più ricco di interessanti innovazioni: i Gun Club, infatti, danno prova di essere notevolmente maturati, proponendo un sound più curato e policromo, complice probabilmente anche l’attenta produzione di Chris Stein.
A un primo ascolto, Miami evidenzia immediatamente le sue differenze da Fire Of Love, presentando brani nel complesso più pacati e raffinati. I Gun Club, cioè, sembrano avere parzialmente rinunciato all’aggressività e alla voluta grezzezza di molti episodi del primo lavoro a favore di una musica meno violenta, più pulita e più curata negli arrangiamenti ma sempre in grado di trasmettere sensazioni forti e affascinanti. La lezione del Gun Club, come molti di voi (spero) già sapranno, è sostanzialmente rock e si allaccia a molti differenti aspetti dell’ampia tradizione musicale statunitense: punk, rockabilly, country e psichedelia, tanto per citare qualche esempio, confluiscono come per incanto in brani di rara bellezza, nei quali la chitarra secca e graffiante di Ward Dotson domina, assieme alla voce potente e versatile di Jeffrey Lee Pierce; un impasto sonoro dove basso, batteria, steel guitar (strumento tipico del country-rock), piano, percussioni e (in un pezzo) addirittura violino fanno a gara nel costruire efficacissime armonie lanciando un “messaggio” che non può non essere recepito da chi sente sulla pelle il brivido e il feeling del r’n’r. L’album è stupendo dall’inizio alla fine e non credo che gli estimatori (numerosi, a quanto pare) di Fire Of Love avranno difficoltà ad apprezzarlo, nonostante quelle sue novità che, per quanto positive, potrebbero di primo acchito disorientare; la vena e le capacità dei Gun Club, comunque, emergono maggiormente (a mio parere) in composizioni come Carry Home, Run Through The Jungle, Watermelon Man, John Hardy (rilettura di un noto traditional) o Fire Of Love e soprattutto nella conclusiva Mother Of Earth, un capolavoro come pochi. Sì, d’accordo, Miami viene a costare la bellezza di quindici biglietti da mille, ma vi assicuro che, ora come ora, non potreste impiegare la cifra in maniera migliore. I Gun Club hanno tutte le carte in regola per riscuotere il vostro incondizionato consenso, e la presenza di Miami nella vostra discoteca di amante del rock più “vero” è per lo meno doverosa.
(da Il Mucchio Selvaggio n.58 del novembre 1982)

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Amerigo Verardi (2022)

Ci sono argomenti dei quali non riesco sempre a occuparmi sulle varie riviste con le quali collaboro, ma che possono essere propagandati qui sul blog. Il problema è sempre il tempo, unito alla scarsa voglia perché scrivere prosciuga e già scrivo tantissimo su carta, ma alla fine riesco quasi sempre a trovarlo. Ecco allora due (reative) novità che riguardano Amerigo Verardi, artista che com’è noto a tanti ha un posto speciale nel mio cuore di appassionato.

Risale allo scorso aprile l’uscita di Amerigo Verardi – Il ragazzo magico (Arcana), libro di 320 pagine (prezzo € 22) che racconta la vicenda musicale, e di riflesso umana, di uno dei musicisti più geniali, ma purtroppo non abbastanza riconosciuti, di questo nostro Paese che sembra una scarpa. Lo ha firmato Raffaele M. Petrino, già responsabile di un lavoro analogo dedicato a Cesare Basile, Amore alzati che passa la cummeddia (sempre Arcana, 2020). Realizzato con la collaborazione dello stesso Verardi, il volume è ben scritto e ricco di notizie, retroscena e testimonianze che agevolano la comprensione del mondo artistico dannatamente intrigante creato dal talento brindisino, a partire dagli anni ’80, tra gruppi, attività da solista, produzioni. A prescindere dalle copie che (non) venderà, una “biografia commentata” più che necessaria; esauriente, scorrevole e integrata da un paio di decine di fotografie che, nonostante siano in bianco/nero, fanno per così dire colore.

È invece più recente la pubblicazione della versione in vinile di Walking On The Bridge di quegli Allison Run che di Amerigo Verardi furono la prima band importante. Si tratta di un triplo LP che non riprende esattamente la scaletta dell’omonimo triplo Cd commercializzato nel 2020 dalla Spittle: mancano i brani dal vivo e quasi tutti i demo, ma in compenso ci sono i tre pezzi del 12”EP del gruppo-satellite Betty’s Blues, la cover de La fata di Edoardo Bennato che dell’ensemble fu l’unico (riuscito) esperimento in italiano e un brano precedentemente inedito saltato fuori chissà da dove. Tirato dalla Psych-Out in centocinquanta esemplari numerati a mano, il disco vanta una confezione che è poco definire incredibile, con copertina pesantissima e un inserto illustrato di quaranta pagine 30×30 (testi, foto e tanti disegni psichedelici opera di Daniele Guadalupi): un oggetto splendido, la cui fattura giustifica ampiamente gli 80 euro richiesti (da sottolineare che è il prezzo effettivo di costo, senza alcun guadagno da parte dell’etichetta). Le copie rimaste sono davvero poche e quindi gli interessati farebbero bene ad affrettarsi: http://www.psychoutrecords.com

 

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Technicolour Dream (2022)

I Technicolour Dream, sostanzialmente un duo composto dal bassista/cantante Marco Conti e dal chitarrista Fabio Porretti, furono il secondo gruppo a firmare per la mia High Rise e il primo a pubblicare un album (Pretty Tomorrow, nel 1985). Ci fu poi lo scioglimento, dal quale nacquero Magic Potion e Pale Dawn, finché svariati anni dopo i ragazzi si ritrovarono per una nuova, lunga fase di carriera tuttora in essere, che li ha visti collaborare spesso con una figura cardine dell’underground britannico degli anni ’60 e ’70, John Alder in arte Twink. Sono ora contento di annunciare di aver concesso l’uso del marchio High Rise – non ho ripreso a finanziare dischi, mi occupo solo della loro supervisione – per un 45 giri della band, Born Again/Isis Calling, edito in vinile rosso e tiratura limitata (326 copie). Fabio e Marco suonano, con Luciano Pavia alla batteria e due ospiti/sodali d’eccezione: alle tastiere e al sitar c’è Jon Povey, inglese con esperienze in varie compagini (la più famosa, i Pretty Things) e alla voce l’americano Jimy Sohns, frontman degli storici Shadows Of Knight. Quasi tutti i dischetti sono finiti in vendita all’estero, ma una cinquantina di copie sono state affidate per la distribuzione italiana ad Area Pirata; chi fosse interessato all’acquisto può farlo a questo link.

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Pale Dawn

Dopo tantissimi anni, ho riesumato la mia etichetta High Rise per una piccola operazione discografica; anzi, per due, ma della seconda scriverò in altra occasione. A dirla tutta, avevo già riutilizzato il marchio nel 2020 per la stampa ultralimitata (diciotto copie!) in formato 8 pollici del mio EP a nome Freddie Williams and Plutonium Baby, ma in quel caso si trattava di un’edizione privata, fuori commercio. In questo caso, invece, il “prodotto” è un CD con tutti i crismi, tirato in 300 copie, che raccoglie tutte le registrazioni esistenti – nove brani professionali e nove demo comunque di ottima qualità – dei Pale Dawn, che dopo aver pubblicato un singolo per la High Rise nel 1987 hanno proseguito l’attività, seppure in modo non continuativo, incidendo vario altro materiale rimasto fino a ora inedito. La distribuzione ufficiale sarà avviata nei prossimi giorni a cura di Goodfellas, ma intanto mi sembrava giusto dare la notizia. Per chi fosse interessato ad approfondire, ecco la presentazione di Opera Omnia che ho scritto per il libretto di dodici pagine (con altri testi, foto e note dettagliate) che accompagna il CD.

Pale Dawn cop

A metà anni ’80, il fenomeno neo-Sixties precedentemente sviluppatosi all’estero era esploso a livello underground anche in Italia, e questo mi aveva indotto a rilanciare la mia etichetta High Rise, “congelata” nel 1983 dopo un solo 45 giri. Per la ripartenza avevo puntato sui Technicolour Dream, formazione romana di due elementi (più batterista aggiunto) composta dal cantante/bassista Marco Conti e dal chitarrista Fabio Porretti; i ragazzi suonavano assieme da circa un decennio ma avevano ottenuto le prime attenzioni grazie a Claudio Sorge, che aveva inserito due loro brani – Vinyl Solution e Sailor Square – rispettivamente nella storica raccolta Eighties Colours e in un singolo allegato alla fanzine Lost Trails. Avevo così prodotto il loro LP Pretty Tomorrow, edito sul finire del 1985 e bene accolto dai media specializzati e dai numerosi cultori del rock psichedelico, come provato dal rapido esaurimento della tiratura di mille copie. Con mio grande stupore, però, Marco e Fabio avevano nel frattempo deciso di separare le loro strade (si sarebbero incrociate di nuovo parecchio dopo) e si erano già riorganizzati con nuove band: per il secondo i Magic Potion, dall’approccio aggressivo e rock’n’roll, e per il primo i Pale Dawn, artefici di un sound più avvolgente e morbido, senza dubbio maggiormente in linea con quello dei Technicolour Dream. Fu dunque logico proporre a entrambi la produzione di un 45 giri “di assaggio”, da pubblicare in contemporanea sempre con il marchio della High Rise. I brani furono incisi nel corso del 1986 ma i due dischetti, a causa di sopraggiunte difficoltà con il distributore/partner della label, videro la luce – in cinquecento copie ciascuno – solo nel maggio del 1987. Quello dei Pale Dawn, con Mesmeric Moon e Before The Faint, era un intrigante biglietto da visita per il trio completato dal chitarrista Roberto Micarelli e dal batterista Giuseppe Querci, il cui stile era piuttosto diverso da quello di qualunque altro esponente italiano (e non) del circuito neo-psichedelico. Un vantaggio? Sì e no, vista la tendenza della massima parte degli appassionati a seguire sottogeneri più facilmente codificabili e a guardare con sospetto quanti – come i Pale Dawn – sembravano non disdegnare flirt con il progressive.
Proprio in questo periodo, i miei rapporti con i Pale Dawn si diradarono, senza una ragione determinante ma per più concause: l’instabilità della line-up, le complicazioni per gestire l’aspetto live, il mio non pieno apprezzamento di una parte del loro repertorio, la scuderia della High Rise ormai fin troppo affollata. Cose che succedono e la colpa non è di nessuno. Fui però contento del fatto che i ragazzi fossero andati avanti e che, dopo aver registrato il brano Amanda per il secondo volume di Eighties Colours, avessero raggiunto un accordo con l’amico Sorge per impinguare la loro produzione con il marchio della sua Electric Eye. Alla fine il diavolo ci mise la coda e non se ne fece nulla, ma è bello che le canzoni illo tempore approntate siano state oggi strappate all’oblio, restaurate (ma senza alterarle) e radunate in questo CD assieme ad altre fissate su nastro in successive fasi della travagliata vicenda della band. Alcune mi erano totalmente ignote e, una volta ascoltatele, mi sono trovato a pensare che avrebbero di sicuro meritato di veder la luce in tempo reale e non “in differita”. Tutto questo materiale documenta comunque un’esperienza inusuale oltre che stimolante ed è quindi cosa buona e giusta che non sia rimasto chiuso in qualche cassetto ma sia ora disponibile per i cultori, gli esegeti e gli appassionati di quei suoni che cercavano in qualche modo di rievocare e far rivivere le magie dei Sixties in giorni per lo più dominati da ben altre urgenze. Forse c’è voluto un po’ troppo, ma è sempre meglio tardi che mai… no?

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Really Red (1981)

Pubblicato in un giorno imprecisato del 1981, probabilmente in dicembre, il primo (dei due) album dei Really Red è certo etichettabile come hardcore punk, ma le sue caratteristiche specifiche lo rendono decisamente anomalo per gli standard del genere. Per ulteriori spiegazioni, ecco cosa ne scrissi nel Mucchio Selvaggio del marzo 1982, quarant’anni fa, con tanto fervore e altrettanto candore.

Really Red cop

Teaching You The Fear
(C.I.A.)
Che i texani Really Red siano una punk band è inconfutabile, anche se il loro modo di esserlo differisce notevolmente da quello di altri gruppi. Mentre molti si dedicano a un sound violentissimo, velocissimo e brutale, spesso anche rozzo e caotico, loro preferiscono ricercare una via autonoma, dove la paranoia ritmica, l’uso tagliente degli strumenti, la voce crudele e la perversione delle atmosfere sanno essere anche più potenti e sconvolgenti del granitico muro di suono creato da molti seguaci dell’hardcore punk “classico”. Primo LP dell’ensemble edito a seguire tre 45 giri, Teaching You The Fearraggiunge perfettamente l’obiettivo indicato dal titolo di insegnare cosa sia la paura; per farlo ricorre a diciotto brani diversi tra loro, ma tutti conturbanti, dove i quattro musicisti hanno modo di liberare tutta la loro rabbia. Sostanzialmente, le composizioni si dividono in due categorie: quelle più compatte, costruite secondo gli schemi del punk tradizionale e quelle nelle quali la violenza è un po’ mitigata a beneficio di un sound ipnotico ma ugualmente sferzante; parecchie tracce, poi, sono in bilico fra le due tendenze, poiché presentano un efficace alternarsi dei due tipi di espressione.
Quella dei Really Red è indubbiamente musica difficile da catalogare e giudicare proprio per queste sue particolari caratteristiche; in ogni modo, non si può non riconoscere al gruppo una notevole personalità e una non comune abilità nel dar vita a canzoni che, positivamente o negativamente, sanno stimolare l’ascoltatore. Teaching You The Fear ha l’aspetto di un disco da “garage-band”, ma questo sembra non dispiacere ai Really Red, notoriamente contro i compromessi del music business; la grezzezza di alcuni episodi, inoltre, e tutt’altro che disprezzabile, giacché una pulizia e una cura eccessiva degli arrangiamenti sarebbero stati nocivi. Anche i testi, crudi e aggressivi, meritano considerazione per come esprimono con terminologia semplice ed efficace l’insostenibilità di determinate situazioni. Dei pezzi precedentemente pubblicati, sono presenti solo una nuova interpretazione di White Lies, facciata B del secondo 7”, e le versioni di studio dei quattro dell’EP “live”, che, come previsto, nella nuova veste guadagnano parecchio. Un po’ discontinui nelle precedenti prove su vinile, i Really Red sono insomma giunti a una piena conferma delle loro capacità: Teaching You The Fear ha più di un numero per farsi apprezzare e si impone all‘attenzione di tutti come un album davvero incontaminato da manovre per renderlo più commerciabile. E questo, visti i recenti sviluppi di quello che fino a poco tempo era underground e ora è solo un mezzo per far soldi, è già un grandissimo risultato.
(da Il Mucchio Selvaggio n.50 del marzo 1982)

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