Tre giorni fa, il 22 settembre, sono andato all’Auditorium della Conciliazione a vedere Steven Wilson; in primavera, a causa di irrinunciabili impegni pregressi, avevo perso il suo concerto al Teatro Sistina e, no, due volte di fila sarebbe stato troppo. Sulla scia dell’entusiasmo per una performance eccezionale per qualità, imponenza e impeto comunicativo ed emotivo, recupero con piacere la mia recensione dell’ultimo album del musicista britannico, unendola a quella del lavoro precedente e del (non proprio) “mini” che a quest’ultimo fece da appendice. Per chi fosse interessato, qui una mia lunga intervista del 2015.
The Raven That Refused To Sing
(Kscope)
Magari l’affermazione sembrerà irriguardosa, ma Steven Wilson è una sorta di Robert Fripp della sua generazione. Non per la tecnica chitarristica, della quale è comunque dotatissimo, ma per l’iperattività creativa, per la capacità di allestire progetti ed elaborare idee, per il perfezionismo maniacale: non è certo un caso che proprio Fripp gli abbia affidato le chiavi del suo regno – ovvero, i master dei King Crimson da remixare – lasciandolo libero di governarlo a suo piacimento; e inoltre, lo si voglia o meno, i suoi Porcupine Tree sono stati la band-cardine del rock progressivo dell’ultima quindicina d’anni.
Dopo aver congelato chissà fino a quando la sua “creatura” più famosa, il polistrumentista inglese ha adesso dato vita al terzo capitolo della sua produzione solistica: sei composizioni lunghe dai cinque ai dodici minuti che mettono in scena una revisione in chiave moderna dello spirito prog classico dei ‘70: trame ricche e articolate ma non goffamente ridondanti, ceselli che rimandano al jazz e al folk, atmosfere evocative seppur spesso “turbate” da fremiti rock, voce usata con parsimonia, competenti e affettuosi richiami al Re Cremisi, ai Van Der Graaf Generator e ai migliori Yes, il tutto con un suono allo stato dell’arte hi-fi (esiste persino l’edizione Blu-ray). Per taluni un Inferno, per altri il più accogliente dei paradisi.
Tratto da Il Mucchio Selvaggio n.703 del febbraio 2013
Drive Home
(Kscope)
Oltre a essere notoriamente uno workholic, Steven Wilson sa benissimo di poter contare su un’ampia schiera di sostenitori maniacali disposti ad assecondarne con gioia ogni capriccio: si spiega così questa raccolta di “frattaglie”, definita “EP” a dispetto dell’ora di durata e dell’essere accoppiata a un DVD (o Blu-ray) che ne propone in video più o meno lo stesso repertorio. Il cuore della scaletta è nei brani catturati dal vivo a Francoforte nel marzo scorso, tre dall’ultimo, ottimo The Raven That Refused To Sing e uno – la title track, ormai un classico – dall’esordio solistico Insurgentes, che dimostrano le enormi capacità del musicista inglese e della sua straordinaria band di riprodurre sul palco quanto inventato in studio; il resto del programma offre invece due videoclip, uno strumentale da ascoltare leggendo una “ghost story” sullo schermo e la versione orchestrale di The Raven That Refused To Sing. Principalmente per cultori di stretta osservanza, ma non ci sono controindicazioni che l’eventuale scoperta del più grande talento “prog” degli ultimi vent’anni possa partire anche da qui.
Tratto da Blow Up n.188 del gennaio 2014
Hand. Cannot. Erase.
(Kscope)
Su altre colonne, in occasione dell‘uscita di quel The Raven That Refused To Sing (And Other Stories) che a seguito della nuova uscita in oggetto è divenuto il penultimo vero album di Steven Wilson, definivo il musicista, produttore e ingegnere del suono britannico “una sorta di Robert Fripp della sua generazione”. Peraltro, non mancando di precisare. “Non per la tecnica chitarristica, della quale è comunque dotatissimo, ma per l’iperattività creativa, per la capacità di allestire progetti ed elaborare idee, per il perfezionismo maniacale: non è certo un caso che proprio Fripp gli abbia affidato le chiavi del suo regno – ovvero, i master dei King Crimson da remixare – lasciandolo libero di governarlo a suo piacimento; e inoltre, lo si voglia o meno, i suoi Porcupine Tree sono stati la band-cardine del rock progressivo dell’ultima quindicina d’anni”. Da allora, in ventiquattro mesi, Wilson ne ha naturalmente combinate un bel po‘: ha portato Raven… in tour, ha pubblicato un paio di raccolte con suoi materiali d‘archivio, ha remixato in Stereo e Surround un tot di vecchi lavori altrui (Yes, XTC, Tears For Fears, Jethro Tull, Gentle Giant…), ha mixato fra gli altri Opeth e Tim Bowness, non ha trascurato la sua etichetta Kscope. E ha confezionato questo ulteriore capitolo, il quarto propriamente detto, della sua produzione solistica; un album che, com‘era fin troppo facile immaginare, è un concept, incentrato sulla storia strana e drammatica di una ragazza giovane e in gamba, con familiari e amici, che un giorno scompare e che nessuno si preoccupa di cercare per tre anni.
Oltre che nel formato standard e in un vinile doppio, Hand. Cannot. Erase. è stato commercializzato in un‘edizione alla quale è allegato un secondo CD di demo e in una Blu-ray con bonus non granché significativi (remix, versioni accorciate e differenti). Stuzzicanti curiosità per completisti, ma come sempre i reali motivi di interesse sono nell‘opera-base, che in nove episodi più una intro e una outro, per un‘ora e sette minuti in totale, ricorda senza timore di smentita le ragioni della stima, del rispetto e dell‘amore dei quali Mr.Porcupine Tree è gratificato in tutto il mondo. Certo, il disco non è coeso come il suo pur eclettico predecessore e spazia invece senza grandi problemi fra atmosfere diverse, ponendosi quasi come un ipotetico “catalogo” di tipiche sonorità wilsoniane; il cuore è nelle tre lunghe suite 3 Years Older, Routine e Ancestral, ma la folkeggiante Transience, la più cupa Perfect Life e la radiofonica Happy Returns offrono belle seppur parziali deviazioni da una formula che, come attestano la title track, Home Invasion e Regret #9, è comunque di incontestabile indirizzo progressive. Un prog, però, libero da catene, dove la classicità non sa prescindere dalla modernità (e viceversa) e dove le trame strumentali più o meno ardite, i virtuosismi, le fantasie melodiche e tutto il resto, senza dimenticare testi e artwork, fanno parte di un unico, vivace quadro creativo, comunicativo ed evocativo. Insomma, ancora una volta Steven Wilson ha abbondato in sostanza musicale, ispirazione, ricchezza, suggestioni e “bel suono”. Ci vorrà magari un po‘ per trovare la giusta collocazione di Hand. Cannot. Erase. nelle gerarchie della sterminata discografia del suo autore, ma la prima decina di attenti ascolti non lasciano dubbi: il re del prog contemporaneo, anche se il termine appare riduttivo, è sempre ben saldo sul suo trono.
Tratto da AudioReview n.359 del gennaio 2015
In ogni caso il disco che avevo in mente era (ma forse si era intuito) Siberia dei Diaframma.:-)
Nel post appena inviato ho dimenticato di specificare il mio nome.
Mi fa estremamente piacere vedere recensito quello che è a tutti gli effetti uno dei miei miti viventi. Ne apprezzo tantissimo la poliedricità e l’immenso gusto compositivo (non trovo, nella sua sterminata proposta musicale, un pezzo che sia brutto), oltre al fatto che è un musicista come piacciono a me: non eccessivamente tecnico, ma capace di tirare fuori il meglio dai suoi strumenti.
Domanda: nel blog, è possibile leggere qualche tuo intervento, commento e /o recensione sui Porcupine Tree? Sono curioso.
Nel blog no, o almeno non ancora. All’epoca, pur seguendoli, non ho forse mai scritto dei Porcupine Tree, ma qualcosina l’ho fatta a posteriori in occasione di una lunga intervista a Steven apparsa mesi fa su AudioReview. Condivido quel che dici, è un musicista “giusto” sotto ogni profilo. E anche una persona genuinamente innamorata di quello che fa, oltre che un professionista esemplare.
Giusto. Da non sottovalutare, tra i tanti pregi di Wilson, quello di essere anche un eccellente produttore, sia dei propri dischi che di quelli di altri (Opeth, Anathema, più le riedizioni di alcuni classici del prog). Il suono che fuoriesce dai dischi maneggiati da lui è semplicemente perfetto. Insomma, il paragone con Robert Fripp non è affatto azzardato, anzi.
Ne approfitto per complimentarmi per il bellissimo approfondimento sui dischi italiani “veramente rock” da te scritto su Classic Rock, anche se devo dire che c’è un’assenza che mi ha lasciato un po’ di stucco. Vediamo se nel prossimo blocco da dieci dischi ci sarà quell’album. Se però, come penso, l’ordine seguito è quello alfabetico, non c’è nessuna speranza di vederlo. Staremo a vedere.:-)
Ti ringrazio. L’ordine è alfabetico… ma, credimi, anche io sono stato lasciato un po’ di stucco dalle mie scelte. 😀 Diciamo comunque che, in linea di massima, ho preferito evitare scelte troppo “ovvie”. E considera che la scelta di rappresentare ogni sottogenere più o meno con un solo titolo rende le cose parecchio problematiche.
Molto bello, per il migliore di Wilson solista e nella mia top 5 di questo 2015, assieme a (in ordine sparso) “Untethered moon” dei Built to spill, “The magic whip” dei Blur, “Endkadenz” dei Verdena (sia il vol 1 che il 2, che me per me è ancora meglio del primo), “Peanut butter” dei Joanna gruesome, “Hyphophobia” di Jacco Gardner
Bei gusti. Fra i miei “top” dell’anno ci sono anche Ryley Walker e gli Algiers.
Ti ringrazio per il “Bei gusti”, detto da te direi che è un gran complimento 🙂 Darò un ascolto ai tuoi due che non conosco