Ray LaMontagne

Mentre del contemporaneo album di Brian Fallon ho letto (quasi) solo esaltazioni, il nuovo lavoro di Ray LaMontagne è stato invece trattato per lo più con sufficienza. Lieto di essere stato l’eccezione che conferma la regola.

LaMontagne copOuroboros (RCA)
Nessuna meraviglia, che molti cultori del Ray LaMontagne finora conosciuto siano rimasti spiazzati da quest’album, perché è diverso dai cinque che l’hanno preceduto e per via del distacco dell’artista del New Hampshire – già accennato in Supernova, di due anni fa – dal cantautorato folk-rock più o meno classico; qui il legame con le radici è sempre saldo, ma è vissuto alla luce di un approccio psichedelico, “progressivo”, pseudo-sinfonico e misticheggiante sviluppato in episodi introspettivi e onirici prodotte da Jim James dei My Morning Jacket. Sul piano concettuale tutto ruota attorno alla ciclicità dell’esistenza (l’ouroboros, o uroboros, è il simbolo del drago o serpente che si morde la coda presente in un’infinità di culture antiche), mentre nella formula musicale si possono riscontrare affinità con Van Morrison, la Band, i Fleet Foxes, Jonathan Wilson e in alcuni casi persino i Pink Floyd di metà ‘70. Legittimo “soffrire” un po’ la ricercatezza – e magari l’imponenza – dell’insieme, ma ugualmente lecito innamorarsi di questi brani avvolgenti, magnetici e a loro modo avventurosi, intonati con una voce tenuemente intensa che non può non ammaliare e sospesi in magico equilibrio fra la terra e il cielo. E davvero chi se ne importa se, citando il testo della magnifica Wouldn’t It Make a Lovely Photograph posta in chiusura di scaletta, “non ascolterai mai questa canzone alla radio”.
Tratto da Blow Up n.216 del maggio 2016

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