Moda (senza accento)

Era appena iniziata la primavera del 1996 quando, dopo oltre otto anni di assenza, rientravo al Mucchio. Lo facevo con il compito di organizzare ogni mese un inserto di sedici pagine sul rock italiano “emergente autoprodotto esordiente”, che avevo battezzato “Fuori dal Mucchio” e che, mutando forma ma con lo stesso nome, sarebbe durato fino alle mie dimissioni, nell’aprile del 2013. L’ultima facciata conteneva la rubrica “Modernariato”, dove io (che al tempo mi firmavo Gianluca Picardi, l’unico alias che abbia mai avuto) e altri dello staff ci avvicendavamo a raccontare le gesta di qualche band o solista del rock italiano più o meno storico. Nel secondo numero volli occuparmi del primo gruppo serio, largamente incompreso, di Andrea Chimenti; avevo recensito in tempo reale, o almeno credo, tutti i suoi dischi, ma ritenni fosse io caso di riepilogare.
Moda fotoÈ davvero strano che i Moda, nonostante l’indubbia personalità del sound, la felice vena pop di molte canzoni, le notevoli doti tecniche, il look accattivante, il sostegno della PolyGram e della CGD e il vantaggio di un nome immediatamente memorizzabile non siano divenuti un gruppo di successo. A danneggiarli è stato con tutta probabilità il loro mantenersi in bilico tra un rock che oggi definiremmo “d’autore” e la leggerezza dei suoni di consumo, nonché il fatto di essere (o apparire) troppo frivoli per i gusti del pubblico alternativo e troppo bizzarri per quello delle classifiche; la sostanziale ambiguità, insomma, caratteristica che forse come nessun altra risulta poco gradita a platee estremiste (in un senso o nell’altro) e quindi abituate a concepire la musica in termini di compartimenti stagni. Eppure, i Moda rimangono una band da ricordare: non solo per le successive gesta dei loro ex membri che oggi si trovano sotto i riflettori, ma anche per il fascino sprigionato dalle loro testimonianze discografiche; documenti un po’ ingialliti dal tempo trascorso e comunque non esenti da pecche, ma certo non privi di motivi di curiosità e interesse. E persino migliori, o almeno così sembra, di quando apparvero in un’Italia rock che con fatica tentava di uscire dall’underground più buio e opprimente.
Formatosi a Firenze (ma le origini erano aretine) nei primi anni ’80, l’ensemble iniziò la carriera destreggiandosi tra new wave e pop di scuola britannica; dopo un paio di demo in inglese, l’incontro con il produttore Alberto Pirelli – che in quel periodo stava avviando la fondamentale avventura dell’IRA – li indirizzò all’uso di liriche in italiano e li condusse all’esordio in Catalogue Issue (IRA, 1984), raccolta-manifesto che vedeva come altri titolari Litfiba, Diaframma e Underground Life. Benché acerbi, i due brani lì presentati – Nubi d’Oriente e La voce – segnalarono i Moda come formazione da tenere d’occhio; e se a colpire fu soprattutto Andrea Chimenti, vocalist straordinariamente intenso e suggestivo, i suoi compagni – Fabrizio Barbacci alle chitarre, Fabio Galavotti e Fabio Chiappini alle tastiere, Marco Bonechi al basso e Nicola Bonechi alla batteria – dimostrarono una statura superiore a quella abitualmente richiesta a delle semplici “spalle”.
Dopo circa un anno trascorso a rodare il live-show e a perfezionare uno stile sempre più elegante e raffinato, il gruppo raggiunse il traguardo del debutto in proprio con Bandiera (IRA/PolyGram, 1986); prodotto da Pirelli, l’album mise ancora in luce la devozione per la new wave più solenne ed enfatica (Simple Minds in primis) e la vena sfingea dei testi, ben sottolineata da una grafica ugualmente arcana; dall’iniziale Ombre (forse l’episodio più riuscito) alla conclusiva Camminando sulla ragnatela impreziosita dalla (pur marginale) presenza di Piero Pelù, il disco è un continuo susseguirsi di atmosfere per lo più soffici e a tratti moderatamente torbide, legate assieme dalle evoluzioni canore di un già grande Chimenti. Non un capolavoro, nonostante gli ottimi spunti, ma una buona base su cui edificare. E difatti Canto pagano (IRA/PolyGram, 1987), registrato con la collaborazione alla consolle di Mick Ronson (mitico chitarrista, tra gli altri, di David Bowie e Ian Hunter) e pubblicato nei primi mesi del 1987 con una copertina ispirata all’arte di Robert Crumb, certificò la netta svolta verso sonorità ancor più elaborate ma meno pompose, di impronta più rock – anche a causa dell’eliminazione delle tastiere di Galavotti, andato a sostituire il dimissionario Marco Bonechi nel ruolo di bassista – e occasionalmente aperte a innesti quasi glam.
Un album non agevole da decifrare, Canto pagano, che raccolse più consensi che critiche ma che non servì a imporre la band in misura tale da giustificare l’impegno anche economico profuso nel progetto. Così, ad azzardare un definitivo “o la va o la spacca”, nel 1989 i Moda confezionarono Senza rumore (IRA/CGD, 1989), il capitolo più commerciale della loro storia, inciso con il nuovo batterista Roberto Zamagni e con il solito Alberto Pirelli in cabina di regia; illuminato da qualche brano di buon livello ma annaquato dalla sovrabbondanza di arrangiamenti fiatistici e dal chiaro intento di ottenere il beneplacito dei programmatori radiofonici, il disco non raggiunse gli obiettivi (troppo ambiziosi?) auspicati, lasciando al quintetto la sola alternativa dello scioglimento. Soluzione, questa, che alla fine non si è rivelata troppo drammatica, considerati i brillanti sviluppi della carriera di Andrea Chimenti – eccellenti i suoi due album solistici, La maschera del corvo nero (CGD, 1992) e L’albero pazzo (CSI/PolyGram, 1996) – e i risultati raggiunti da Fabrizio Barbacci come produttore e talent-scout (tra le sue scoperte, i lanciatissimi Negrita), nonché l’affermazione di Fabio Galavotti nel campo della grafica.
Comunque, come si diceva qualche riga più sopra, un ensemble che non merita di precipitare per sempre nel dimenticatoio, anche se le sue potenzialità sono rimaste in gran parte inespresse. Dei tre dischi, il più reperibile è purtroppo l’ultimo, ma nei negozi dell’usato non è infrequente imbattersi nei suoi predecessori. Inutile dire che l’acquisto, seppur non doveroso, è quantomeno consigliabile.
Tratto da Il Mucchio Selvaggio n.220 del maggio 1996

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9 pensieri su “Moda (senza accento)

  1. Meritavano sicuramente più gloria, ma rispetto a Diaframma e Litfiba suonavano troppo leggerini, ai tempi bisognava cantare col vocione impostato e essere un pochino dark.

    • E aggiungi anche che, al di là dello stile, tutti quelli che si ritenevano a ragione o a torto “duri e puri” schifavano abbastanza le band che sembravano “da fighetti”.

  2. Pingback: alcuni aneddoti dal futuro degli altri | 06.06.15 | alcuni aneddoti dal mio futuro

  3. Anonimo

    Non riesco a trovare nessun disco malediz. !!!

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