Talking Heads (1983-1988)

Nel 1988, dopo essere uscito per la prima volta dal Mucchio e prima di dar vita a “Velvet”, avviai due nuove collaborazioni, con “Rockerilla” e “Ciao 2001”. Proprio per quest’ultimo scrissi una mezza retrospettiva sui Talking Heads: “mezza” perché dedicata solo alla seconda fase di attività della band newyorkese, fino a quel Naked che, a sorpresa, sarebbe stato il capitolo conclusivo dell’avventura. La ripropongo qui, accoppiandola a un’intervista di tre anni prima a Jerry Harrison che per forza di cose si collega al discorso.

Talking Heads copNudi alla meta
È così estesa e ricca di avvenimenti, la storia dei Talking Heads, che narrarla per intero richiederebbe le pagine di un libro invece di quelle di un semplice articolo. Non è comunque solo per ragioni di spazio che questa nostra trattazione verrà limitata agli ultimi cinque anni di attività della band newyorkese. Infatti, al di là della sua inevitabile eterogeneità stilistica, la recente produzione discografica di David Byrne e soci ben si presta a essere catalogata come pop, seppure colto e nettamente distinto da quello più prevedibile, disimpegnato e schiavo delle esigenze delle charts. Fino al 1982, com’è noto, Talking Heads e stato sinonimo di avanguardia e ricerca: dai primi passi, acerbi quanto geniali, alle collaborazioni con Brian Eno, dagli studi sull’Africa fino al tentativo – perfettamente riuscito – di celebrare l’unione fra suoni e culture diversissimi fra loro, tutto ha fatto parte di un progetto espressivo di rara intelligenza e lucidità, concretizzatosi in album unici quali 77, More Songs About Buildings And Food, Fear Of Music e Remain In Light. Il doppio dal vivo The Name Of This Band Is Talking Heads aveva chiuso il ciclo, offrendo un efficacissimo riassunto delle vicende artistiche dell’ensemble. Questo, però, non significa che a partire dal 1983 i Talking Heads hanno rinunciato ad addentrarsi in territori ancora inesplorati: semplicemente, hanno deciso di mutare rotta, indirizzando la propria creatività verso situazioni musicali più dirette e accessibili che in passato. E, com’è ovvio, non hanno rinnegato la loro indole eccentrica, dimostrando una volta in più quanto la loro verve sia sempre vivace e come il loro rock (ma è giusto dcfinirlo così?) conosca bene il segreto per evitare le trappole della convenzione.
È il giugno del 1983 quando Speaking In Tongues viene immesso sul mercato, e per coloro che avevano ancora nelle orecchie gli echi di Remain In Light lo shock è notevole. Le intuizioni di quell’irripetibile capolavoro hanno infatti subito una bizzarra metamorfosi, generando un sound dalle venature disco sempre molto originale (soprattutto nelle trame vocali) ma certo più commerciale. Non a caso l’album tocca vertici di vendite fino a quel momento mai raggiunti dal complesso, grazie anche alla pubblicazione di tre mix Burning Down The House, This Must Be The Place e Slippery People, nonché alla conseguente programmazione degli stessi nelle dancehall di tutto il mondo. Giudicato a posteriori, Speaking In Tongues è uno dei capitoli meno interessanti dell’imponente romanzo Talking Heads: la presenza di alcune ottime canzoni (Swamp, Burning Down The House, I Get Wild/Wild Gravity) e di qualche spunto di arrangiamento particolarmente felice non è sufficiente a risollevare le sorti di un disco di livello più che accettabile ma inferiore alle legittime aspettative. L’anno successivo vede invece la diffusione sul circuito cinematografico di Stop Making Sense, il film-documentario della carriera delle Teste Parlanti: l’omonima colonna sonora registrata dal vivo, per quanto validissima, non aggiunge comunque elementi al discorso, giacché in essa sono compresi in buona parte brani del repertorio pre-1983 (fra i quali alcuni già apparsi, naturalmente in altre versioni, in The Name Of This Band Is Talking Heads.
È dunque solo con il 1985 che David Byrne, Jerry Harrison, Tina Weymouth e Chris Franz forniscono una seconda prova della loro mutata attitudine compositivo/interpretativa: Little Creatures, il nuovo 33 giri, mostra una hand quasi irriconoscibile, abilissima nel conferire ad antiche invenzioni musicali una veste inedita e quantomai stimolante. Protagonista dell’album è la melodia, che accoppiata a una vena espressiva mai così fresca e gioiosa partorisce nove accattivanti quadretti di esuberanza pop; policromo come l’abbigliamento dei musicisti nel retrocopertina, Litt1e Creatures regala momenti di autentica, irrefrenabile eccitazione: abbandonando quasi del tutto i riferimcnti alle tradizioni nere e attingendo a piene mani nel serbatoio del rock, i Talking Heads stupiscono con la loro capacità di dar vita a brani elementari eppure affascinanti. Quasi per gioco il quartetto ritorna a un linguaggio di agevole comprensione, evitando però di cadere nella banalità o nella rilettura parodistica: il country di Creatures Of Love, le cadenze ipnotiche di Give Me Back My Name, The Lady Don’t Mind e Television Man, la dolcezza di Perfect World, la contagiosa allegria di Road To Nowhere, Stay Up Late e And She Was – quest’ultima assolutamente irresistibile – dicono di una formazione che come per incanto ha ritrovato la voglia di divertirsi e divertire. Dopo tanti anni di sperimentazioni si era resa indispensabile una pausa, e Little Creatures testimonia di tale fase come meglio non si sarebbe potuto fare: un disco paragonabile a un quadro naïf, con tinte accese e minuziosa cura del dettaglio a modellarsi su un’idea tutto sommato semplice.
A differenza della colonna sonora dell’omonima pellicola diretta da David Byrne (attribuito al solo leader ed edita con il titolo Sounds From True Stories), True Stories del 1986 raccoglie interpretazioni di pezzi del film a opera dei Talking Heads: la traccia di fondo rimane quella del pop fantasioso e piacevolissimo, ma la spontaneità dell’album precedente ha lasciato il posto a un’elaborazione più artificiosa. Difficile, in ogni caso, negare la validità di un lavoro che allinea episodi di così ragguardevole caratura, da Wild Wild Life e Love For Sale – frenetiche e trascinanti – a Dream Operator e City Of Dreams, avvolgenti e delicatissime. L’ultima fatica del gruppo risale a poche settimane fa ed è quel Naked che ancor prima dell’uscita ha fatto molto parlare di sé a causa della presenza, nei suoi solchi, di un ospite di lusso: Johnny Marr, ex Smiths, ovvero il chitarrista più “in” del rock da qualche anno a questa parte. Per l’ennesima volta i Talking Heads hanno spiazzato critica e pubblico con una stranissima raccolta di canzoni, suddivise in due facciate che poco sembrano avere in comune: la prima, che ha come fiore all’occhiello l’allucinata Mr. Jones, si muove lungo le linee di un sound ritmato e ballabile, nel quale le citazioni funk si amalgamano a quelle sudamericane e caraibiche; la seconda, al contrario, indugia in atmosfere più pacate ed eteree, coniugando tecnologia e “radici” [ascoltare la bluesata Big Daddy) in un caleidoscopico susseguirsi di suggestioni.

Difficile intuire dove l’eclettico Mr. Byrne, ottimamente coadiuvato dai suoi fidi gregari, orienterà il suo talento negli anni a venire, e ancor più difficile immaginare se le sue realizzazioni discografiche sapranno sempre mantenersi all’altezza della leggenda Talking Heads. Per il momento, però, la band non sembra intenzionata a perdere colpi e, seppure fra comprensibili cadute di tono (mai, peraltro, scandalose), sfrutta ogni occasione per esaltare le sue qualità. Finché la situazione sarà come l’attuale, che nessuno tenti di mettergli il bavaglio.
Tratto da Ciao 2001 n.16 (Anno XX) del 20 aprile 1988

Harrison fotoNon sarà la mente dei Talking Heads, ma è senz’altro più di un semplice gregario: parliamo di Jerry Harrison, tastierista e chitarrista delle Teste Parlanti newyorkesi trovatosi in Italia per una serie di incontri con la stampa. L’obiettivo è la promozione del nuovo album Little Creatures, che segna l’esordio della band per il gruppo EMI dopo ben otto anni trascorsi alla corte della Sire. Strumentista abile. esperto ed eclettico (prima dei Talking Heads ha suonato anche con Modern Lovers ed Elliott Murphy), Jerry è cordiale e affabile, parla a raffica ed evita all’intervistatore la fatica di cavargli a forza le parole di bocca. Non ha atteggiamenti da divo e, almeno a sentire lui, con il rock’n’roll si diverte ancora parecchio.
La prima domanda è scontata: quali sono le ragioni del cambio di etichetta?
Non ci sono stati attriti o incomprensioni, la Sire ci avrebbe voluti ancora con sé. È solo che, dopo tanti anni, abbiamo pensato fosse giusto cercare nuovi stimoli con un’altra compagnia, visto che il contratto era scaduto.
Così i vostri ultimi LP, il deludente Speaking In Tongues e la colonna sonora di Stop Making Sense, non sono stati realizzati per far fronte a obblighi contrattuali.
Oh, no! Sono stati voluti da noi, non abbiamo ricevuto alcuna pressione per farli uscire.
Eppure Stop Making Sense sembrava non avere senso, visto che poco tempo prima avevate pubblicato il doppio live.
Sai, è piuttosto inusuale immettere sul mercato due LP dal vivo in un lasso di tempo così breve, ma non è insolito realizzare il film di un tour: sembrava assurdo avere una pellicola musicale senza il disco corrispondente. Comunque abbiamo tentato di fare qualcosa di diverso rispetto al doppio… magari non ci siamo riusciti… mah…
E quella serie interminabile di mix e 45 giri con i soliti vecchi brani? Era abbastanza logico che si cominciasse a pensare a una crisi ispirativa.
Il problema si presenta solo in Gran Bretagna, dove il mercato non può fare a meno di tali artifici per restare vivo. Però, in certi casi, è stata anche una nostra scelta: per esempio, quando molti anni fa abbiamo registrato Psycho Killer, credevamo potesse divenire un’hit, ma così non è stato. Ci abbiamo riprovato adesso con la nuova edizione, non ci sembrava una cattiva idea. Comunque è abbastanza improbabile che una situazione analoga possa ripetersi in futuro.
Come mai nel nuovo album avete operato questa svolta verso il “pop”, voi che siete sempre stati un complesso colto e sperimentale?
Potrei dire che, in qualche modo, siamo come tornati indietro al nostro primo 33 giri, arricchendo però quel tipo di espressione sonora con tutte le esperienza accumulate fino a oggi. Noi abbiamo sempre apprezzato le nostre prime canzoni anche quando, con Remain In Light, ci muovevamo lungo coordinate differenti. Terminata – o interrotta, ancora non lo sappiamo – la nostra ricerca e il nostro studio sui ritmi africani, ci è parso ovvio servirci di tutti i ritrovati tecnologici utilizzati nei lavori più recenti e far valere la pratica finora acquisita. Non credo che Little Creatures contenga pop music convenzionale, ci sono parecchie soluzioni abbastanza singolari; l’attitudine è pop‚ ma la realizzazione sembra piuttosto sperimentale.
C’è Creatures of Love che è una canzone country…
È venuta fuori per caso. Dopo averla composta e arrangiata ci siamo resi conto del fatto che suonava country e ci siamo detti “perché no?”. È così raro che una band di New York abbia in repertorio un pezzo country. Abbiamo ascoltato black per così tanto che ci sembrava quasi naturale passare prima o poi alla musica “bianca”
Quali sono le vostre connessioni con la tradizione musicale americana?
Un po’ quelle di tutti: Elvis Presley, Eddie Cochran, Chuck Berry, il blues. È il sound con il quale siamo cresciuti, fa parte di noi…
Segui l’attuaIe scena underground?
Non come facevo prima, o come vorrei. Comunque mi piacciono queste band che riscoprono le radici della cultura musicale degli Stati Uniti: Jason & The Scorchers, Lone Justice, Los Lobos. Mi piace l’idea della tradizione che si rinnova, ma apprezzo allo stesso modo sia i “padri” che i “figli”.
In generale, cosa pensi del panorama musicale di oggi?
Beh, nel complesso mi sembra abbastanza buono. Credo, però, che vi siano troppi artisti che si curano più dell’immagine che della musica: le loro canzoni si ascoltano con piacere, ma assomigliano più a colonne sonore per videoclip che non a canzoni così come siamo soliti intenderle.
Però anche voi, in quanto a look, non vi risparmiate. Cosa vi è saltato in mente di conciarvi in quel modo per le session fotografiche del nuovo LP?
Abbiamo usato quell’abbigliamento eccentrico per creare una specie di sintonia con la copertina del disco: c’è quel dipinto stile naïf, e delle foto “serie” sul retro avrebbero creato dei contrasti. Così abbiamo deciso di apparire ridicoli, vestiti come non andremmo mai in giro per strada.
Quali pensi saranno le reazioni dei vostri fan di fronte al vostro cambiamento di stile?
Probabilmente quelli che apprezzano Remain In Light e il nostro modo di proporre dance music non saranno molto soddisfatti. In Gran Bretagna, però, abbiamo avuto una recensione dove si leggeva “finalmente i Talking Heads sono tornati alla loro buona musica e hanno abbandonato quella stupida roba africana”. Ci sono talmente tanti gusti, talmente tante opinioni, che non ce ne preoccupiamo affatto. Siamo comunque certi che Little Creatures abbia le carte in regola per piacere a un sacco di gente.
È un disco molto eterogeneo.
È come il White Album dei Beatles, una raccolta di momenti e suggestioni diversi fra loro.
I ritmi africani vi interessano ancora?
Abbiamo imparato moltissimo da quel tipo di musica, ma adesso che sono in tanti a seguire le nostre orme non ci va di restare nella massa. Personalmente sono sempre molto affascinato dalle musiche ricche di cadenze, e il mio prossimo LP da solista rifletterà questo mio amore. In Little Creatures l’asse portante è la melodia, che in una musica fortemente ritmica non riesce a venir fuori, è soffocata. Noi non abbiamo voluto fare un disco pop, ma un disco basato sulla melodia. Non è la stessa cosa, anche se può sembrarlo.
A che punto sono i lavori per il tuo album?
È completo per metà, ma non so ancora quando riuscirò a finirlo: sono piuttosto occupato, ho anche il progetto di produrre il nuovo dei Violent Femmes.
Tratto da Il Mucchio Selvaggio n.92 del settembre 1985

Categorie: articoli, interviste | Tag: | 2 commenti

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2 pensieri su “Talking Heads (1983-1988)

  1. Demis Moretti

    Ciao Federico, che gruppo immenso sono stati, grazie per avermeli fatti ricordare, a quando il tuo best 2013 sul blog?

  2. Pingback: alcuni aneddoti dal futuro degli altri | 29.12.13 | alcuni aneddoti dal mio futuro

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