Ministry (1999)

Prima Limp Bizkit, Orange 9mm, Coal Chamber, Machine HeadSlipknot, Linkin Park, Soulfly, Incubus. Poi Italia, con i Linea 77. Quindi Rob Zombie, Ill Niño e ora, con questa recensione, la serie dedicata al crossover/nu metal chiude i battenti. Domani il suggello, che non è una recensione.

 

Dark Side Of The Spoon
(Warner Bros)

Gioca con il titolo del più famoso album dei Pink Floyd, questo Dark Side Of The Spoon, suggerendo nel contempo – l’utilizzo del termine spoon, cucchiaio, non può essere dovuto solo all’assonanza con moon – surreali immagini di tossicodipendenza. E gioca, in modo ancora più pesante, con le contaminazioni elettrico-elettroniche, riportando Al Jourgensen e Paul Barker – dopo l’incerta parentesi dell’ultimo Filth Pig – ai livelli di opere memorabili quali Land Of Rape And Honey, The Mind Is A Terrible Thing To Taste e Psalm 69. Ancora industrial dance, insomma, per forza di cose ibridata con il metal più abrasivo e il dark più acido e inquietante? Sì, senza possibilità di equivoco: ecco quindi che questi nove episodi – fa eccezione l’immancabile traccia fantasma, numerata 69 – non hanno paura di evocare lo spettro senza pace dei gloriosi Killing Joke (ma a tratti, nei momenti meno convulsi, viene anche da pensare ai Bauhaus), presentando furiose e compatte cavalcate ritmiche dove le chitarre acuminate, le estrose alchimie tecnologiche e le voci mai propense alla rilassatezza dipingono scenari cupi e avviluppano in atmosfere torbide e terrificanti.
Non è una formula inedita, quella di Dark Side Of The Spoon, nonostante i più attenti aficionados dei Ministry riusciranno a trovarvi qualche spunto innovativo, e considerata la tanta acqua passata nel frattempo sotti i ponti non è neppure estrema e minacciosa come una decina di anni orsono. Rimane però, al di là di una iconoclastia ormai di routine, una delle più lucide sotto il profilo progettuale e una delle più ispirate e convincenti dal punto di vista della composizione e dell’interpretazione, come ben dimostrato dalle ossessive Supermanic Soul e Bad Blood, dalla magnetica Kaif o dalla 10/10 sconvolta da stralunati volteggi di sax. Non c’è dunque da stupirsi che l’impressione finale, suddette perplessità “creative” a parte, sia quella di un album intenso, coinvolgente e ricco di fascino, che riconferma i Ministry come indiscussi maestri – non solo per questioni di anzianità – di quella scuola espressiva che ha tra i suoi più apprezzati allievi Korn, Nine Inch Nails, Rob Zombie e Marilyn Manson.
(da Il Mucchio Selvaggio n.360 del 13 luglio 1999)

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