Madrigali Magri

Probabilmente ai più il nome risulterà ignoto, e allora sarà il caso di specificare che i Madrigali Magri sono stati la band di Giambeppe Succi prima dell’avvio del progetto Bachi da Pietra. Fra il 1999 e il 2004 realizzarono tre album e un mini; l’intervista che segue, illuminante anche in prospettiva, risale ai tempi dell’esordio e accompagnò anche la copertina di “Fuori dal Mucchio”, l’inserto mensile (e rubrica settimanale) di rock italiano emergente che curavo per il Mucchio.
Madrigali Magri fotoAttivi da parecchi anni, i Madrigali Magri sono solo da poco giunti al sospirato esordio discografico con l’eccellente CD autoprodotto Lische. Delle radici, delle prospettive e soprattutto del singolare progetto musicale del gruppo di Nizza Monferrato si è dibattuto con Giambeppe Succi, Nicoletta Parodi e Valerio Rossi, per fortuna sempre lucidissimi nel rispondere a ogni interrogativo.
Prima domanda stupida ma necessaria: da dove avete tirato fuori un nome così?
Ne cercavamo uno che definisse ciò che suoniamo: madrigali magri cioè canzoni scarne, materiali poveri. Anche il suono delle parole è acido e assurdo quanto basta per calzare perfettamente. Molti lo trovano brutto e difficile, ma poi pronunciano con disinvoltura Smashing Pumpkins, Torococo Rot, Einsturzende Neubauten.
Il concetto dello scarno ricorre anche nel titolo del vostro album, Lische
Lische vuole evocare l’idea di ciò che rimane alla fine di un processo di scarnificazione: un nucleo che dura. L’organico a tre porta di per sé all’essenzialità e noi abbiamo amplificato questo aspetto, sfrondando quello che ci sembrava superfluo o non importante da dire.
Quale obiettivo artistico vi siete prefissi?
Siamo partiti con le idee chiare soprattutto su quello che non volevamo fare, ma molto aperti alla possibilità di sperimentare suoni e soluzioni: non avevamo un progetto predeterminato, ma solo la voglia di vedere realizzate idee che ci ronzano in testa da anni e la necessità di dare un luogo materiale e concreto alla nostra musica senza perdere l’emotività che ci caratterizza dal vivo. Quanto è successo in fase di realizzazione è stato spesso una sorpresa anche per noi.
Per classificarvi molti usano un termine secondo me insensato come “post rock”, ma io vi vedo abbastanza psichedelici: al di là della limitatezza delle etichette, è un’impressione corretta?
Siamo d’accordo sul non senso del “post rock”, che presuppone per l’ennesima volta la morte del rock che invece semplicemente si trasforma come ha sempre fatto: è l’ennesimo calderone di comodo nel quale nessuno si riconosce, e l’affronto più palese è forse quello di inserirvi gruppi che hanno la nitida convinzione di suonare rock: strano, diverso, contraddittorio, inquinato, ma pur sempre rock. Anche se alcuni dei parametri del “post rock” possono essere rinvenuti nel nostro stile, noi ci riteniamo un gruppo rock, e in questa non definizione rientrano tutte le influenze che riteniamo importanti dal blues delle origini in poi, compresa un’idea di psichedelia intesa come musica che lascia spazio per pensare non obbligatoriamente alle cose che proviamo mentre la suoniamo. Se vuoi possiamo aggiungere al rock l’attributo contemporaneo, ma nulla di più.
A tratti sfiorate il dark, e comunque la vostra formula tende al malinconico.
Per dark molti intendono una sonorità di tipo new wave o uno stile dandy con cui non abbiamo niente in comune: il dark, per come lo intendiamo noi, è un umore che può accomunare gente molto diversa come Black Sabbath, Portishead o Low. In questo senso lo siamo. Lische è un disco intimista e cupo, nei testi e nella musica, e molto sincero: rispecchia un lato della personalità di tutti e tre, su cui ci troviamo emozionalmente in accordo e che esprimiamo musicalmente con molta naturalezza.
Vantate anche, o almeno così sembra, riferimenti alla cosiddetta canzone d’autore. Le vostre liriche hanno pretese letterarie?
Verrebbe da rispondere no in blocco: quando sento chiamare poeta Mogol, con tutto il rispetto, mi chiedo come dovrei definire Montale o Zanzotto. La letteratura è una cosa scritta per essere letta, la canzone è scritta per essere completata dalla musica: la differenza è enorme. Alla musica chiediamo emozioni fisiche e non raffinati piaceri intellettuali, e i nostri testi non hanno pretese letterarie nel senso che non si confrontano con il mondo della letteratura.
Però in Fosca reciti Raymond Carver.
Ti sembrerà paradossale ma il minimalismo non c’entra, ci è finito per puro caso… Quando è stato il momento di provare i suoni della voce ho iniziato a leggere il libro che avevo sottomano. A lavoro ultimato, in fase di montaggio, ci siamo accorti che alcune incisioni di prova erano davvero particolari, come quel brandello di Carver; allo stesso modo, abbiamo usato improvvisazioni, parti audio di una videocamera, tracce registrate nella nostra sala prove, in casa o in strada con un walkman. Insomma, abbiamo voluto usare l’editing come ulteriore strumento creativo, dando una cornice unitaria al tutto.
Immagino quindi che non abbiate un vero “metodo” compositivo o un particolare approccio tecnico.
In generale siamo piuttosto refrattari a moduli o regole: un nostro pezzo può nascere improvvisando, mischiandone due, stravolgendone uno, oppure da un’idea precisa che poi viene sviluppata, più spesso sottraendo. Il rapporto musica-immagini è simbiotico: si suscitano a vicenda, come associazioni di idee. Per quanto riguarda il rapporto con la tecnica, quest’ultima deve essere al servizio della sensibilità di chi suona: può essere un mezzo, ma non un fine.
Vivete in un luogo dove, si dice, il tempo scorre lentamente e senza scossoni. Credete che questo si rifletta nel vostro rapporto con la musica?
Forse inconsciamente. Nei testi rientrano spesso connotazioni legate direttamente o indirettamente ai luoghi, anche perché ci piace in questo modo dare concretezza alle impressioni o cogliere aspetti surreali da situazioni quotidiane. Preciserei, però, che viviamo a Nizza Monferrato solo geograficamente, e comunque per scelta.
L’album è stato prodotto da François Regis Cambuzat, non proprio un artista “inquadrato”. Come si è svolto il lavoro?
È stato registrato da Francois Cambuzat, Chiara Locardi e Alessandro Bartolucci: loro possedevano un’esperienza di studio che noi non abbiamo, per cui il loro contributo nella ricerca e nella resa del suono e dell’essenzialità è stato importante. Sette delle undici tracce di Lische sono state incise in una casa di campagna a Preggio, vicino Perugia, sfruttando al massimo una tecnologia minima. Nonostante la tua impressione, Francois e Chiara sono molto analitici e precisi, e nello stesso tempo il loro modo di lavorare permette di sentirsi libero e a proprio agio. È stato interessante, musicalmente e umanamente.
In che direzione pensate che vi stiate muovendo?
È difficile dare una risposta: in questi cinque anni abbiamo subito un’evoluzione continua, ma si può facilmente riconoscere uno stile, un filo conduttore che ci appartiene profondamente fin dall’inizio. Si parte da un’idea ma non si sa di preciso dove si arriva. L’unico obiettivo certo è quello di continuare a fare ciò che ci piace sempre più liberamente: in fondo, quello che chiunque può aggiungere alla musica che già esiste è solo il proprio punto di vista, anche se farlo non è facile come dirlo. Di sicuro il prossimo disco sarà sempre “nostro” ma differente: probabilmente sarà più rabbioso perché col tempo l’incazzatura è aumentata per svariati, innominabili motivi.
Qual’è la vostra posizione nella diatriba elettronica-musica “suonata”?
Il giudizio rimane comunque sulla musica, può piacere o no a prescindere dal mezzo che si è utilizzato per farla. Forse dipende tutto dai ruoli: se usi lo strumento o se te ne fai strumentalizzare, che sia un computer o una chitarra. Noi usiamo chitarra, basso e batteria, però Fosca è stata costruita interamente su campionamenti di noi stessi, e anche in fase di montaggio finale la tecnologia digitale ci ha permesso di tradurre in pratica idee non realizzabili altrimenti. Quindi, nessun pregiudizio, né in un senso né nell’altro.
I Madrigali Magri sono in qualche misura interessati al ”pop”?
Se per pop intendi canzoni che ti vengono incontro scodinzolando senza chiederti niente, la risposta è no. Preferiremmo che gli ascoltatori facessero fino in fondo il loro dovere: ascoltare, prestare attenzione, provare a calarsi nei brani, concedere loro tempo anche se al primo impatto possono spiazzare. Potremmo definire il nostro un disco di “pop frainteso”, dove dietro elementi fuorvianti la musicalità rimane un fatto naturale, i testi non sono cantabili al primo ascolto ma possono dire qualcosa a chiunque. Però la nostra è una musica spontanea e quindi per certi versi pop.
State raccogliendo concreti consensi a livello nazionale: vi sentite miracolati?
Non ci sentiamo affatto miracolati: dopo cinque anni di impegno e testarda costanza, quello che di buono finalmente arriva ce lo siamo guadagnato. Forse la cosa che ci gratifica di più è proprio l’avere fatto tutto da soli, senza limitazioni e senza supporti. Per la cronaca, posso aggiungere che tutte le etichette italiane hanno ricevuto una copia di Lische prima che il CD venisse stampato: non ci offendeva che qualcuno partecipasse alle spese, ma nessuna ci ha preso in considerazione. Se ci permetti una scontata nota polemica, il paradosso in Italia è che le etichette sembrano essere alla ricerca dell’originalità mentre in realtà vogliono “cloni” da piazzare in nicchie di mercato sicure. Questo rende la cultura musicale italiana arretrata e stagnante, nonostante esista un panorama veramente indipendente valido e una buona fetta di pubblico che si è rotta le palle. Piuttosto, siamo stati fortunati nell’avere incontrato persone che hanno creduto nelle potenzialità della nostra musica come Luca Ribuoli di Zarathustra, che attualmente cura il management, la White’n’Black che distribuisce il nostro disco e alcuni giornalisti. Purtroppo rimane difficile trovare spazi per suonare, nonostante il consenso della stampa e del pubblico ai nostri concerti… ma in fondo il nostro è stato è un buon inizio e abbiamo un sacco di tempo.
Tratto da Il Mucchio Selvaggio n.354 del 1 giugno 1999

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