Sisters Of Mercy (1985)

Era la primavera del 1985 quando i Sisters Of Mercy, freschi della pubblicazione del loro esordio-capolavoro First And Last And Always, calarono in Italia per una fulminea e apprezzatissima tournée; di lì a poco l’organico si sarebbe sfaldato, e al termine di una lunga disputa legale il frontman Andrew Eldritch avrebbe mantenuto la sigla sociale mentre il chitarrista Wayne Hussey e il bassista Craig Adams avrebbero dato vita ai Mission. Nel pomeriggio che precedette il concerto romano, Eldritch mi concesse l’unica intervista esclusiva rilasciata nella circostanza nel nostro paese: trascorremmo un paio d’ore a chiacchierare in un camerino del glorioso Cinema Teatro Espero (oggi una sala bingo, che tristezza) e alla fine mi regalò due splendidi libri confezionati artigianalmente con tutti i testi dei Sisters Of Mercy. Con la sua magnifica grafia scrisse su uno “a Federico, il miglior fabbro”, una dedica (“rubata” a Dante Alighieri) che T.S. Eliot fece a Ezra Pound, e sull’altro “Lasciate ogni speranza o voi che entrate”. Inutile dire che li conservo ancora entrambi, e fra le mie cose più preziose.

Sisters Of Mercy foto

Per chi ancora non lo sapesse, i Sisters Of Mercy sono la più acclamata cult-band dell’attuale panorama britannico, grazie alla bellezza dei loro dischi, alla potenza delle loro esibizioni e soprattutto all’innegabile carisma del loro cantante/leader, l’enigmatico Andrew Eldritch. Acquisita una certa notorietà attraverso una produzione discografica tanto estesa quanto frazionata, ed entrati trionfalmente nell’olimpo del nuovo rock inglese con lo splendido album First And Last And Always, i Sisters Of Mercy sono autori di una musica tenebrosa e conturbante, basata sul ritmo incalzante della drum-machine, sull’incisività chitarristica e sul canto cupo di Andy; nulla, comunque, di pervicacemente underground, e nulla che non sia recepibile da un pubblico non avvezzo a tali sonorità. Fortemente legati alla tradizione rock, al punto di interpretare classici di Velvet Underground, Stooges, Rolling Stones e Bob Dylan, e convinti assertori della superiorità del feeling rispetto alla tecnica musicale, i Sisters Of Mercy, con appena un LP all’attivo, sono indiscutibilmente uno dei gruppi del momento; e a procurare loro nuove schiere di fan saranno certo serviti i recenti concerti in terra italiana, gratificati da un numero impensabile di presenze.
Quanti anni hai?
Quando l’intervista sarà pubblicata ne avrò appena compiuti ventisei.
La solita vecchia domanda. Come hai iniziato a interessarti alla musica?
Sai, non avrei immaginato di diventare, un giorno, un musicista. Fino al 1970 non ascoltavo nessun tipo di pop, poi l’ho fatto per qualche anno e ho smesso verso il ‘73/74, il periodo del glam-rock. Tutto è accaduto per caso. Qualcuno aveva lasciato una strumentazione a casa mia per un certo periodo, io ho provato a usarla, e l’ho trovato divertente.
Cosa facevi durante l’esplosione punk del’76/’77?
Ero all’Università ad Oxford, ed ero esattamente l’opposto del punk.
Come sono nati i Sisters Of Mercy?
Eravamo solo alcuni amici che volevano suonare assieme ed essere una band. Tutti avevano una band, e noi partivamo da zero. Abbiamo iniziato con i soliti tre accordi, come tutti, e abbiamo continuato nello stesso modo per molto tempo. Ora che abbiamo raggiunto un buon livello tecnico siamo interessati ad approfondire la nostra conoscenza del “noise”, del rumore; non so se capisci cosa voglio dire.
Sì, d’accordo: il feeling del suono più che la sua struttura tecnica.
Esattamente. Quello che secondo me rende un disco interessante non è la musica, non mi sforzo di analizzare la musica. È una questione di sensazioni. Quando scrivo canzoni e le provo con la chitarra non perdo tempo a sezionarle, le scrivo e basta.
Avete inciso il vostro primo 45 giri, Damage Done pochi mesi dopo aver formato il gruppo. Perché non lo ristampate, visto che è impossibile trovarlo?
Perché è orribile! È veramente imbarazzante riascoltarlo oggi. Fra l’altro The Damage Done è stato inciso da due sole persone e non è in alcun modo rappresentativo della band. Il gruppo vero e proprio ha cominciato ad esistere con il secondo singolo, ed infatti quello (Body Electric, NdI) è stato recentemente riproposto nella raccolta della CNT They Shall Not Pass.
Perché al posto di un batterista in carne e ossa avete deciso di usare la drum-machine?
Non abbiamo mai avuto un batterista, quelli bravi sono davvero difficili da trovare in un’area depressa come lo Yorkshire, e poi le batterie costano molto. In ogni caso, Doktor Avalanche (la drum-machine, NdI) è adattissima per il nostro sound.
Perchè il vostro album si intitola First And Last And Always?
Perché è il primo e sarà anche l’ultimo. E per quanto riguarda il “per sempre”… non so, diciamo che è una speranza di “immortalità”.
Perché l’ultimo? Non mi dire che è vero quello che hai dichiarato in alcune interviste, e cioè che hai intenzione di sciogliere il gruppo.
Beh, sì. Sono stanco, non mi trovo bene. Già adesso, con l’uscita di Gary Marx, siamo rimasti in tre, e credo che da qui all’estate ci ridurremo a una persona sola; l’attuale formazione è abbastanza unita, ma non penso che lavorare in tal modo sia la miglior cosa per me. Negli ultimi cinque anni ho imparato a fare dischi, a pubblicarli, a realizzare le copertine, a fare il manager, e ho trovato il tutto molto più soddisfacente del semplice “essere una band”.
Potresti intraprendere la carriera solistica ed essere il manager di te stesso.
Sì, probabilmente è quello che farò.
Ed essere una rockstar. Ti piacerebbe questo ruolo?
Sì, molto.
Come Jim Morrison?
Sì, ma da vivo. Non credo sia divertente essere una leggenda soltanto da morti, mi piacerebbe essere una living legend. Forse una leggenda morta potrebbe essere più interessante per il pubblico, ma non per me.
Perché avete atteso tanto per pubblicare il vostro primo LP, facendolo precedere da quella serie interminabile di 45 giri ed EP?
Era come una sfida, giorno dopo giorno, data la nostra scelta di autoprodurci. Sostanzialmente ci sono due ragioni: la prima è che volevamo trovare il momento adatto perché il nostro album raggiungesse un pubblico abbastanza vasto, e questo si poteva ottenere solo dopo aver acquisito una certa notorietà; poi, perché realizzare un album è molto costoso, i soldi rientrano solo dopo parecchio tempo, e noi non potevamo permetterci un investimento del genere.
Adesso, però, avete alle spalle la Wea. Siete soddisfatti del vostro accordo?
Oh, sì. Completamente. Abbiamo il pieno controllo artistico sul prodotto. Sai qual è il principale problema di un artista underground nel momento in cui si lega a una grande etichetta? Non riesce a comunicare con la sua casa discografica, perché si trova inserito in un meccanismo diverso al quale non aveva mai pensato prima. Per noi è un’altra cosa: per cinque anni non abbiamo fatto altro che pensare, conosciamo il mercato e gli artisti di oggi, e quindi sappiamo da soli come comportarci.
Sei interessato al video?
Non molto, è solo un veicolo promozionale abbastanza efficace. I nostri sono piuttosto semplici, non mi va di perdere tre settimane al mese lavorando per un video, e quindi rimanere con una sola settimana per suonare dal vivo o comporre. I clip di Walk Away o No Time To Cry rispecchiano la realtà dei nostri concerti, senza tante sofisticazioni e tanto spreco di tempo e denaro.
Però ti vedrei bene come attore. Hai mai pensato a un’eventualità del genere?
Magari in TV, non sul palco.
Magari nella parte di un killer.
Yeah… Sai che nel mio passaporto ho una fotografia nella quale sono identico ad Alain Delon? Per scattarla sono andato un sabato pomeriggio nel centro di Leeds, completamente vestito alla Alain Delon. Ora mi ritrovo sul passaporto questa foto in cui sembro un assassino, un misto di Alain Delon e Klaus Kinski.
Vai spesso al cinema?
No, ma affitto tantissimi film in VHS da vedere a casa. In Inghilterra, con pochissimi soldi, puoi noleggiare sia il videoregistratore che le cassette, e io passo parecchie notti davanti allo schermo. Da noi il cinema è molto costoso. L’ultimo film che ho visto al cinema è stato Brazil di Terry Gilliam, folle ma assolutamente geniale.
Pensi che la vostra reputazione di cult-band sia da considerare come un fatto positivo?
Siamo una cult-band, ma ci piace lavorare in modo che la nostra musica sia ascoltabile da tutti, come quella di qualsiasi normale gruppo rock. Il mondo è pieno di cult-band che si autolimitano, che si infilano in un vicolo cieco e vi rimangono intrappolate, io aspiro a qualcosa di più. Comunque abbiamo un mucchio di fan… non tanto in Inghilterra, dove la maggior parte del pubblico è interessata al pop, quanto negli Stati Uniti e in Europa, soprattuto in Germania e Italia. In Germania abbiamo un vastissimo seguito, ogni concerto è sold out e parecchi di essi finiscono su bootleg.
Cosa ne pensi di questi bootleg?
Anche se le edizioni sono limitate, odio chi pubblica su disco registrazioni scadenti, non solo come qualità del suono ma anche come validità dell’esibizione. Ci sono sei bootleg veramente validi su trecento che vengono stampati. Quello che proprio non sopporto, comunque, sono i falsi di nostri dischi ufficiali, ci sono in giro copie-pirata di Alice e “Temple Of Love, è incredibile; e poi hanno pure cambiato la veste grafica, assurdo.
Hai qualche interesse specifico nel campo dell’esoterismo o delle esperienze paranormali?
Non più di qualsiasi persona intelligente, credo, ma niente di particolare. È interessante pensare a queste cose, ma è meglio non farsi condizionare da esse in modo troppo paranoico. In ogni caso non ho mai avuto nessuna vera esperienza in questo campo, anche se sarebbe attraente. In senso culturale, intendo, visto il loro peso in certi strati della società occidentale.
Un tuo parere sul nuovo “movimento” dark britannico.
Quando mi parli di dark mi vengono in mente i Deep Purple o i Led Zeppelin…
Eppure tu vesti sempre di nero, come se aderissi a un certo “stile”…
Ma questa è una cosa che faccio da moltissimo tempo, e nemmeno tutti i giorni. Ieri ad esempio, indossavo una t-shirt argento e i blue-jeans. Con tutta questa gente che oggi gira vestita di nero è facile che qualcuno si faccia idee sbagliate. Io sono, come dire, una vittima delle circostanze.
E che effetto ti fa trovarti attorno questi ragazzi in “uniforme” scura?
Nessun effetto particolare, magari ce ne sono alcuni che oggi vengono a vedere i Sisters Of Mercy con abiti neri e domani vanno al concerto degli Hawkwind vestiti da hippy. La nostra audience, però, è molto eterogenea, ci sono hippy, dark, rocker, un po’ di tutto. Fa parte del gioco, non c’è nulla di negativo.
Fra le nuove band che propongono un genere musicale analogo al vostro, hai delle preferenze?
Credo che i migliori siano i Red Lorry Yellow Lorry. È strano, loro vivono vicinissimo a noi, neppure un chilometro, ma non manifestano nessun interesse nei nostri confronti come accade con altri gruppi. Sono davvero al di fuori.
Quali sono i tuoi cantanti preferiti?
Sam & Dave, Dusty Springfield…
Non lo avrei mai immaginato. E fra i compositori? Conosci Ennio Morricone?
Certamente. La nostra Phantom è un tributo ad ennio Morricone, alle sue eccezionali chitarre.
Come mai nell’album hai firmato solo i testi, lasciando agli altri il compito di scrivere le musiche?
Negli ultimi due anni sono stato molto impegnato in questioni pratiche, manageriali, così ho lasciato Gary Marx e Wayne Hussey a occuparsi delle canzoni. Prima non era così, e infatti gran parte dei vecchi brani sono stati interamente composti da me. Si è trattato solo di una questione di impegni, di tempo: mi piace scrivere e non vedo l’ora di ricominciare. Finito un tour adoro sedermi sul divano con una chitarra in mano, il televisore acceso davanti, la mia ragazza e il mio gatto vicino a me. Sono completamente felice. Dopo un po’, però, mi riprende la frenesia e riprendo a fare concerti. Comunque ti giuro che, finite queste date, sarò tranquillo per un bel pezzo.
Perché i Sisters Of Mercy sono sempre stati così misteriosi? Poche interviste, niente foto e nomi sulle copertine…
Non è questione di essere misteriosi, è solo che non ci interessa rispondere sempre alle solite stupide domande della stampa. Se qualcuno ci scrive e ci chiede qualcosa di interessante, noi gli rispondiamo direttamente. Per quel che riguarda le foto e i nomi, serviva solo a far vendere più dischi, e anche un po’ per esigenze grafiche.
Come sono i tuoi rapporti con la stampa inglese?
Non molto buoni, non mi piace il modo in cui i giornalisti si comportano. Per esempio, qualcuno ha recensito No Time No Cry solo in base al titolo, scrivendo che era un disco deprimente. Comunque credo che il Melody Maker sia il migliore; un pò peggio Sounds, ma il New Musical Express è davvero pessimo.
Come scegliete le cover da proporre in concerto?
Sono pezzi che ci piacciono, con i quali ci divertiamo e facciamo divertire il pubblico.
Ma sono così diversi fra loro: Suicide, Hot Chocolate, Rolling Stones, Stooges…
Non sono poi così diversi, o almeno io non li sento tali. Sono cose che sono attorno a noi tutto il tempo. E poi sono arrangiati secondo il nostro stile, in modo più moderno, e magari qualcuno si interesserà agli originali proprio ascoltandoli nella nostra versione. Adesso, per esempio, usiamo come bis Knockin’ On Heaven’s Door di Bob Dylan.
Hai qualche hobby?
I gatti. Le lingue. I libri. Anche il sesso.

* * *

Passione quest’ultima,comune a gran parte delle rockstar o aspiranti tali, nonché a una forte percentuale della popolazione mondiale. Andrew Eldritch, insomma, è un ragazzo normale, con in più un talento artistico fuori dal comune ed un’intelligenza superiore alla norma. In ogni caso un personaggio “vero” e non un burattino in mano al business. Per quel che mi riguarda, è già un grande della “nostra” musica, e ha tutti i numeri necessari per coronare, un giorno, il suo sogno di essere una “leggenda vivente”.
Tratto da Il Mucchio Selvaggio n.89 del giugno 1985

Categorie: interviste | Tag: | 2 commenti

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2 pensieri su “Sisters Of Mercy (1985)

  1. backstreet70

    Floodland è un gran disco.
    Alcuni loro boot comunque sono davvero buoni e loro sembra che dal vivo spaccassero.

  2. argiasbolenfi

    Certo che le cose andarono in modo piuttosto diverso.. anche se Floodland non mi è mai dispiaciuto

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