Velvet Underground (1967)

Per il numero di “Blow Up” che da un paio di giorni è in edicola ho scritto un lungo articolo sull’esordio dei Devo, senza dubbio uno dei miei “album della vita”. Alla categoria appartiene anche il debutto dei Velvet Underground, che nel pezzo di cui sopra è per di più incidentalmente citato. Ci stava, quindi, riesumare dagli archivi questa “pietra miliare”, il cui taglio tendente al sentimentale/autobiografico è decisamente il linea con quello del lungo excursus sulla band dell’Ohio: non lo colllocherei fra i miei lavori più memorabili, ma ci sono affezionato.

Velvet Underground copVelvet Underground And Nico
Peel slowly and see (da noi sarebbe stato sbuccia lentamente e guarda), recita una picola scritta collocata in alto a destra, proprio a fianco del gambo della banana, sulla copertina della limitatissima prima stampa dell’esordio dei Velvet Underground. Niente nome del gruppo né altre indicazioni: solo la firma (stampata) del responsabile della singolare immagine – nientedimeno che Andy Warhol, l’inventore della Pop Art – e la celebre banana che, dopo aver rimosso la pellicola adesiva gialla, rivela la versione nuda del frutto.
Alla mitica banana “sbucciabile” (edizione cartonata Verve printed in USA), di ben altro fascino rispetto alle mille successive ristampe, è legato uno dei più vividi ricordi di giovane invasato di rock, negli anni ‘70 non ancora investiti dal ciclone punk; non dimenticherò mai di quell’autunno del 1978 quando alla fine, dopo lunghe e infruttuose ricerche, me la trovai davanti nella vetrina di una botteguccia londinese specializzata in rarità. Senza batter ciglio sborsai la cifra richiesta, corrispondente a circa 60.000 lire di oggi, e portai stampato in volto per qualche ora (giorno?) un sorriso a trentadue denti. Non avevo acquistato solo un 33 giri ma un piccolo (seppur seriale) frammento di una leggenda della quale facevano parte Lou Reed e John Cale, i geni; Sterling Morison e Maureen Tucker, i comprimari ingiustamente sottovalutati; Andy Warhol, il maestro di estetica; Nico, la chanteuse che avrei incontrato invecchiata e sfatta parecchi anni dopo e al cui cospetto mi tremavano comunque le gambe: perché Femme Fatale, I’ll Be Your Mirror e All Tomorrow’s Parties, specie a chi se n’è innamorato a sedici anni, continueranno a riempire gli occhi di lacrime a ogni riascolto.
Registrato nella seconda metà del 1966 e pubblicato nel marzo del 1967, Velvet Underground And Nico Produced By Andy Warhol (ma il ruolo dell’artista/agitatore fu, come è noto, concettuale e non musicale) è senza ombra di dubbio uno degli album più straordinari della storia del rock; e anche uno dei più innovativi, influenti, carismatici e leggendari delle decine di migliaia che dai ‘50 ad oggi l’hanno resa una vera e propria epopea. Se ne dovessero scegliere cinque, soltanto cinque, non potrebbe non essere nell’elenco, e questo rende ancor più difficile “spiegarlo” al neofita. Ci si deve almeno provare, però. E allora cominciamo con il dire che tra le sue undici tracce sono compresi due dei più famosi capolavori di Lou Reed (I’m Waiting For The Man e Heroin), “omaggi” di incredibile forza eversiva – si era, non dimentichiamolo, nel 1967 – alla più torbida vita metropolitana: poesie aspre e sofferte, con la droga in primissimo piano, rispettivamente musicate con piglio rock’n’roll nervoso e incalzante e con toni in morbidi che pian piano spalancano abissi di delirio. Ci sono poi i due episodi a firma Lou Reed/Cale, l’apparentemente (apparentemente) paradisiaco Sunday Morning e il cupo The Black Angel’s Death Song, dove emerge inequivocabile la tendenza all’ossessività e al minimalismo tipica di John Cale; la delicatissima I’ll Be Your Mirror, l’appena più viziosa Femme Fatale e la ieratica e quasi funerea All Tomorrow’s Parties (paradossalmente scelta come 45 giri), le tre “filastrocche” scritte da Lou Reed per Nico che le interpreta con la sua caratteristica timbrica profonda; il rhythm’n’blues accelerato di Run Run Run e il jingle-jangle stravolto da bizzarri coretti di There She Goes Again; la psichedelia malata di European Son, quasi otto minuti di allucinazioni semi-improvvisate; infine, la meravigliosa Venus In Furs, il perfetto incontro tra dolcezza e perversione, con la viola elettrica di John Cale a flagellare le melodie e la voce enfatica di Lou Reed a raccontare una differente storia d’amore. Insomma, undici canzoni che meriterebbero altrettanti articoli di approfondimento, per un gruppo che nei suoi altri tre “veri” album – non considerando, cioé, i live e le raccolte di inediti – metterà in luce la sorprendente capacità di cambiar pelle senza deludere in termini qualitivi: White Light/White Heat (dicembre 1967) The Velvet Underground (marzo 1968) e Loaded (settembre 1970) restano, immortali, a dimostrarlo.
Pur nella consapevolezza che affermazioni del genere, anche perché in qualche misura condizionate dai gusti personali, lasciano un po’ il tempo che trovano, non posso esimermi dal confessare che, a mio parere, i Velvet Underground sono il più grande gruppo rock di sempre. Nessuno è stato altrettanto creativo a 360°, fondendo le lezioni del passato con lo spirito del futuro, l’istintività con il raziocinio, la forza fisica con l’impegno “intellettuale”, il proto-punk con l’avanguardia, la luce e il buio, il piacere e il dolore in un gioco di contrasti stridenti ma miracolosamente bilanciati. Un autentico monumento al quale chiunque – e intendo proprio chiunque – si è ispirato e continua ad ispirarsi e del quale Velvet Underground And Nico è la solidissima base. Chi non conosce questo disco, ci dispiace per lui, non sa cosa significhi la parola rock.
P.S. Qualcuno se ne meraviglierà, ma la famigerata banana sbucciabile di cui parlavo in apertura è stata nella mia collezione solo per pochi mesi: l’ho infatti regalata all’amico appassionatissimo loureediano che, anni prima, aveva voluto prestarmene una ristampa perché anch’io apprezzassi come lui cosa c’era stato prima di Berlin e Rock’n’Roll Animal. Nonostante non ne abbia mai più visto una copia, ritengo ancora di aver fatto la cosa più giusta: cos’è mai un pur splendido feticcio al paragone con una scoperta che – fuor di ogni retorica – ha cambiato la mia vita?
Tratto da Il Mucchio Selvaggio n.403 del 27 giugno 2000

Categorie: recensioni | Tag: | 4 commenti

Navigazione articolo

4 pensieri su “Velvet Underground (1967)

  1. Chango

    Pazzo!!

  2. Anonimo

    Pazzo!!!

  3. donald

    Ho appena visto in un negozio la riedizione del vinile questa volta con la banana sbucciabile! 😀

  4. donald

    beh, hai avuto senza dubbio fegato a cedergli la copia, non so quanti al posto tuo l’avrebbero fatto. ll primo che ascoltai dei velvet fu, stranamente white light white heat, poi presi questo che anche per me resta il loro migliore senza dubbio, white light white heat mi piacque subito tantissimo e lady godiva’s operation, la titletrack e quello splendido macello di sister ray le prime canzoni che amai di loro Bel pezzo as usual

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.

Crea un sito o un blog gratuito su WordPress.com.