Giorgio Canali (2011)

Arrivato negli ultimi CCCP assieme a Gianni Maroccolo, il chitarrista Giorgio Canali è rimasto accanto a Ferretti e allo stesso Maroccolo fino allo scioglimento dei PGR. Nel frattempo non ha però mancato di coltivare il suo percorso solistico (affiancato dai Rossofuoco) all’insegna delle parole forti e del r’n’r ruvido e aggressivo. Proprio l’uscita di Rojo, tuttora l’ultimo dei numerosi album a suo nome, mi offrì l’assist per questa intervista profonda e senza peli sulla lingua.

Canali foto

I più lo conoscono soprattutto per essere stato chitarrista degli ultimi CCCP-Fedeli alla linea, dei CSI e dei PGR, ma approfondendo un minimo la carriera di Giorgio Canali si trova di tutto e di più: esordio su album nel 1986 come leader dei Politrio, prolungate esperienze francesi alla corte dei Noir Desir, trascorsi come fonico/tecnico per un gran numero di artisti fra loro diversissimi, la firma di produttore apposta su svariati dischi (da Corman & Tuscadu a Le luci della centrale elettrica, passando per i Verdena e Bugo), un’infinità di collaborazioni estemporanee. Oltre, ovviamente, ai sei album pubblicati in proprio da frontman e ineludibile fulcro dei Rossofuoco: il più recente, fuori da fine agosto, si intitola Rojo ed è – come tutti i suoi predecessori – una bella chiave d’accesso al mondo nient’affatto pacificato di un musicista davvero atipico, nello stile così come nell’approccio. Uno che dovrebbe farsi tatuare, magari sulla lingua, la scritta “materiale infiammabile – maneggiare con cura”.
Come mai questo attaccamento quasi morboso al rosso?
È il colore del sangue, il colore delle bandiere… condiviso con il nero in quella dell’anarchia. Nel mio secondo album quasi in ogni brano c’era la parola “fuoco”, e il fuoco è rosso… e così il mio gruppo si battezzò Rossofuoco. Ormai, per me, “giocare” con il rosso è diventato una specie di piacevole abitudine, tanto che volevo intitolare quest’ultimo disco L’album rosso: un omaggio trasversale ai Beatles che però avrebbe potuto sembrare presuntuoso. Poi, dato che è il sesto album, si era pensato a Risoluzione strategica #6, ma il ricordo delle Brigate Rosse fa ancora paura e quindi era meglio evitare. Quando ho mostrato, scritte su carta, le quattro lettere di Rojo a Steve Dal Col, il magico chitarrista dei Frigidaire Tango che ormai è nei Rossofuoco da due anni, lui ha subito detto che era il titolo ideale. Rosso in spagnolo, anche per suggerire un’ipotesi di alternativa all’italiano e al francese che sono le due lingue attorno alle quali da sempre ruotano le mie canzoni.
Lo spagnolo è adattissimo per il rock barricadero.
Assolutamente sì. Basta pensare ai classici slogan delle rivoluzioni centro-sudamericane, da Simon Bolivar a Fidel Castro.
Sei di Predappio, la città natale di Mussolini, un’attrazione turistica per i nostalgici del Ventennio. Ci hai anche vissuto?
Certo, tutta l’infanzia e l’adolescenza. Predappio è sempre stata rossa, negli anni ‘70 i negozi di memorabilia fasciste dei quali oggi è piena sarebbero stati bruciati prima ancora dell’inaugurazione. Ora, davanti alla mia vecchia casa, ce n’è uno con venti vetrine di gagliardetti neri, gladi, bandiere con slogan improbabili, busti di pelati “a caso” perché la somiglianza con Mussolini quasi sempre non esiste. Da un paio d’anni il sindaco deplora ufficialmente questo dilagante turismo nero, ma non può arginarlo. Siamo in democrazia. In questo caso, direi, purtroppo.
Sei un cantautore/rocker “di protesta”. Pensi che le canzoni possano cambiare il mondo, o almeno renderlo un posto migliore?
Possono servire a far riflettere. So bene che cavalcare questa ondata barricadera è un rischio, perché la maggior parte della gente si ferma alla superficie dei miei pezzi e desume che io voglia portare avanti una retorica populista di sinistra. Però lo faccio lo stesso, accettando che taluni ritengano che io sventoli una bandiera per fare proseliti. Credo comunque che, analizzando meglio quello che racconto, sia difficile non accorgersi che sotto c’è qualcosa di più.
Per esempio, che spesso la politica in senso stretto lascia il posto alla satira sociale e di costume.
È già accaduto che mi abbiano definito “il Beppe Grillo dell’indie-rock”, sono rassegnato.
Comunque non hai peli sulla lingua e ti esprimi senza filtri concettuali o verbali. È la tua indole, ok, ma dietro c’è anche una precisa scelta comunicativa ed “estetica”.
Sì, è logico. Tutto quel che ho letto e leggo appartiene a un universo vicinissimo alla lingua parlata: scrivere in un modo in cui non parlerei mi parrebbe un esercizio di stile. Mi piace anche cimentarmi in perifrasi e costruzioni che nella vita quotidiana non utilizzerei, ma in linea di massima amo l’approccio spontaneo, diretto, onesto. E rivendico pure il diritto alla licenza poetica, e quindi scrivo il cazzo che mi pare.
Giungere al testo definitivo ti impegna molto?
Devo limare perché ci tengo che tutto fili liscio: il linguaggio deve essere quello parlato, ma deve anche filare come un proiettile. A volte il procedimento è lungo, mi è capitato di rimpiangere di non aver fatto variazioni piccole ma secondo me decisive. È successo che abbia riaperto un pezzo già mixato solo per sostituire un singolo termine o addirittura un plurale al posto di un singolare.
Insomma, al centro del tuo discorso ci sono le parole.
Assolutamente sì. Arrivo a dire che della musica quasi non me ne frega nulla, altrimenti starei più attento – ad esempio – a non far circolare palesi caricature di brani già esistenti. Risoluzione strategica #6, per citarne uno, ricalca un qualsiasi pezzo dei Rolling Stones anni ‘70 e non cerco affatto di mascherarlo. Anzi, lo enfatizzo. È un gioco, in fondo a interessarmi davvero sono i discorsi, i testi, che secondo me sono più originali di quanto possano sembrare. Associarmi ai Modena City Ramblers o agli Yo Yo Mundi significa non aver capito nulla: io “chi non salta Berlusconi è” o “tutti assieme con le mani” non l’ho mai fatto e mai lo farò. Cercare il consenso in questo modo becero invalida in parte anche quello che cerco di fare da quindici anni. Non mi sento la versione più “estremista” dei Modena City Ramblers, sono proprio un’altra cosa: la differenza è la stessa che c’è fra lo scendere in piazza e il lanciare i sanpietrini dalla piazza.
Ecco, a volte non ti sembra di esagerare un po’? E se qualcuno ti prende alla lettera e i sanpietrini li tira per davvero, o spara?
So che nei miei testi ci sono cose al confine con l’apologia di reato, benché non manchi una buona dose di ironia. Peraltro, dubito che i miei pezzi possano dare spinte di questo genere: siamo talmente addormentati che se qualcuno riuscisse a procurarsi una pistola finirebbe per colpirsi i piedi. Non è più l’epoca in cui l’incitamento di un Toni Negri poteva essere preso alla lettera.
Ma qual è il senso di fomentare la rivoluzione, se si è consapevoli che la rivoluzione non ci sarà?
Più il messaggio è emotivamente forte, più c’è da sperare che aiuti a far maturare la consapevolezza che un cambiamento è ancora possibile.
Tolto l’esordio pre-Rossofuoco, Che fine ha fatto Lazlotòz? del ‘98, non rilevo nella tua carriera una “classica” evoluzione: sembra che tu faccia la stessa cosa, con maggiore o minore efficacia, scartando in una direzione o in un’altra. Come vedi la tua discografia?
Sono molto legato al secondo album, Rossofuoco del 2002, che ha definito lo stile: tutti i successivi gli assomigliano, un po’ più o un po’ meno, con le loro sequenze di ballate, pezzi aggressivi, episodi più “storti”, testi stupidi o niente affatto stupidi. Poi c’è l’album bianco, Giorgio Canali & Rossofuoco del 2004, che forse è il più apprezzato da chi mi segue ma che a mio avviso poteva riuscire meglio. Amo invece Tutti contro tutti del 2007, con il quale ho però avuto a lungo un rapporto difficile per colpa del primo verso del primo brano – “Verità, la verità / quella dei servizi giornalistici deviati” – che col senno di poi trovo troppo esplicito, troppo gioco di parole venuto male. Fondamentalmente non vedo la mia carriera in termini di crescita, anche se la crescita c’è pure: un disco deve innanzitutto cogliere come sono, o magari come vorrei essere, nel momento in cui lo scrivo…
E il momento di Rojo qual è?
Dopo Nostra signora della dinamite del 2009, che si focalizzava solo su di me, ho voluto nuovamente parlare di quello che ci succede attorno. Per mia necessità, vedendo che tutto va a scatafascio e che i tentativi di risolvere i problemi non è solo stupido ma criminale. Ma anche un po’ come sfida a chi comunque non mi capirà.
“Non ti curar di lor, ma guarda e passa”.
Sì, benché a me Dante faccia cagare. Molto meglio Marinetti, nonostante fosse un fascio di merda. Del resto i miei canoni artistici ed estetici sono molto più vicini all’iconoclastia che all’iconografia classica.
Quali influenze riconosci, a livello poetico?
La poesia non mi è mai piaciuta, a parte qualcosa degli inizi del 900 italiano tipo Quasimodo o Ungaretti. Ma le loro non sono poesie, bensì flash violenti di sangue sparati contro il muro. Tra i miei riferimenti potrei citare i Monty Python, il Douglas Adams di Guida galattica per gli autostoppisti, Raymond Queneau… oppure I nostri antenati di Calvino, il primo Benni, Veronesi. Nego invece l’influenza che mi si attribuisce di solito, quella di Ferretti: Giovanni è aulico, neoclassico e non ama nemmeno particolarmente i giochi di parole… se vede un film dei Monty Python dice “che cazzo è questa merda? Non la capisco…”.
Parentesi: come facevate ad andare d’accordo, tu e Giovanni?
Litigavamo su tutto, l’unica cosa sulla quale ci trovavamo era il vino. Quello dei conflitti di personalità, però, era un problema comune a tutti i CSI. Il Ferretti di oggi non mi stupisce: se quando ci siamo conosciuti era liturgicamente perfetto per una messa di tipo bolscevico, adesso è liturgicamente perfetto per una messa di altro genere. Un anarchico come me non rileva diversità sostanziali fra un Togliatti e un Ratzinger.
Quali sono, invece, le tue ispirazioni musicali?
Ascolto solo i dischi dei miei amici, o quelli consigliatimi dai miei amici. Idealmente potrei dire Bob Dylan, ma non oso accostare il mio nome al suo.
Ma vedi i Rossofuoco scindibili dal tipo di discorso punk’n’roll che portate avanti da sempre, o un giorno potrebbero anche esserci sorprese radicali?
In teoria non ci sono preclusioni. Il punto è che se entriamo in studio noi Rossofuoco vengono fuori queste cose qui, c’è poco da fare.
Sei tanto leader/solista quanto gregario di lusso, una caratteristica non troppo comune. Come si conciliano, psicologicamente, le due cose?
Non troppo comune qui in Italia, anche se da un po’ di anni mi sembra che si tenda a essere più collaborativi… all’estero è normale. A prendermi di più sono i Rossofuoco, nessun dubbio, ma non ho problemi a sperimentare altre situazioni, purché mi senta a mio agio. All’inizio facevo il fonico per sbarcare il lunario, anche per gli spettacoli porno dell’agenzia di Riccardo Schicchi… ma sono oltre vent’anni che non faccio nulla solo per soldi.
Nemmeno le produzioni “conto terzi”, o il “tributo ai Joy Division” che stai portando in giro assieme ad Angela Baraldi?
Ma no, certo che no. Produrre è il mio secondo lavoro, ma i progetti che mi trovo a seguire mi appassionano. Per quanto riguarda i Joy Division, doveva essere un evento unico da tenere a Reggio Emilia per i trent’anni dalla morte di Ian Curtis, e mi stimolava l’idea di reinterpretare senza basso e batteria canzoni che in fondo si basavano sulla sezione ritmica.
In generale, ritieni di raccogliere il giusto o ti senti sottovalutato?
Credo sia una questione di karma, ho quello che mi merito. Da anni mi sta capitando di lavorare con gente alle prime armi che, dopo un po’, ottiene consensi dieci volte superiori ai miei: una ragione ci sarà. Comunque non mi lamento, adesso anche il pubblico dei Rossofuoco è più ampio… e molti che magari non mi consideravano hanno cominciato a farlo perché sono il chitarrista e il produttore di Vasco Brondi.
Hai cinquantatré anni e per 365 giorni all’anno giri come una trottola, dividendoti fra mille cose ma guadagnando solo quello che basta per una dignitosa sopravvivenza. Non ti sei un po’ stancato?
Non sarà tutto una meraviglia, ma non mi vedo a tirare i remi in barca e limitarmi ai lavori di studio, dai quali peraltro – almeno con quelli che piacciono a me – si ricava pochissimo, o a fare il discografico con la mia etichettina Psicolabel, che di recente ho riesumato. Suonare è la sola cosa che so fare e che mi va di fare: voglio continuare a spaccarmi e spolmonarmi, invecchiando sulla strada.
Intanto, però, sta per essere pubblicata la tua biografia, intitolata – guarda un po’ – Fatevi fottere.
Sì, l’hanno scritta Samuele Zamuner e Irene Zanelli, ed esce in tiratura limitata per la nuova casa editrice di Enrico Brizzi. In allegato, un CD con nove “rarità” inedite, compreso il libero adattamento di Balla Linda di Battisti che giustamente non volesti inserire nel tributo del Mucchio Extra per via dei troppi cambiamenti al testo originale. E Lettera del compagno Lazlo al colonnello Valerio, esclusa dalla raccolta che avrebbe dovuto contenerla – ma lo sapevo, che sarebbe successo – per via delle bestemmie.
È proprio un tuo “vizio”, quella delle bestemmie pubbliche…
Pur sapendo che, a priori, è un gesto stupido, bestemmio dal palco perché voglio che quei dieci cattolici in sala avvertano lo stesso disagio che provo io ogni volta che sento i loro “portavoce” parlare di procreazione assistita, di eutanasia, di matrimoni gay. Sono enormemente infastidito dall’idea che qualcuno rompa il cazzo al prossimo pretendendo di parlare a nome di un dio che oltretutto nessuno ha mai visto.
Tratto da Il Mucchio Selvaggio n.687 dell’ottobre 2011

Categorie: interviste | Tag: | 5 commenti

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5 pensieri su “Giorgio Canali (2011)

  1. Massive Suckers Squad

    Grande Canali. E nonostante possa apparire burbero e “crudo”, in fondo è una persona molto buona e simpatica.

  2. molto bello anche questo pezzo.. il mio “preferito” rimane Marok ma ho avuto modo negli anni di conoscere e apprezzare anche Giorgio, anche se musicalmente coi Rossofuoco non mi faccia impazzire. Lo considero però molto importante per la scena, per ciò che ha rappresentato e ancora rappresenta per il rock italiano. Il suo essere diretto e crudo – lo ammetto – a volte mi urta, ma forse è un limite mio.

  3. Enrico

    Giorgio, ti voglio bene

  4. Gian Luigi Bona

    Il migliore !!!

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