Franco Battiato: citazioni

Quasi quattordici anni fa, su richiesta di Fabio Bagnasco, contribuii a un numero monografico dedicato a Franco Battiato del bel trimestrale di cultura siciliana “Nuove effemeridi”. Ogni partecipante aveva il compito di sviluppare un argomento molto specifico e io ne scelsi uno decisamente “pop”: le citazioni musicali all’interno della mitica trilogia di album che a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta aveva trasformato l’artista catanese da figura di culto a stella delle classifiche. Il fascicolo, che ospita anche pezzi di Gino Castaldo, Massimo Cotto, Mario Luzzato Fegiz, Fabrizio Zampa, Enrico Ghezzi e una dozzina di altri colleghi, è da tempo esaurito, ma lo si può trovare su eBay.

Battiato copFranco Battiato e la canzone pop(olare), 1979-1981
Sono trascorsi due decenni da quando, con generale sorpresa, l’allora trentaquattrenne Franco Battiato mise in scena il primo atto di quella che le cronache, con un pizzico di (scusabile) superficialità, avrebbero poi definito la sua “svolta pop”. Sebbene ribadisse, con riferimenti colti e atmosfere intrise di mistico esotismo, il legame con i suoi ben più ermetici predecessori, L’era del cinghiale bianco mostrò infatti un mondo di cadenze ipnotiche, melodie insinuanti e testi surreali ma facilmente memorizzabili che non veniva spontaneo associare al patrimonio sonoro ed espressivo dell’artista siciliano, oltretutto fresco della conquista di un premio intitolato a Karlheinz Stockhausen. Alcuni, tra i pochi ma affezionati estimatori, pensarono di star subendo una pur dotta presa per i fondelli e altri rimasero semplicemente sconcertati, ma quanti cercarono di comprendere realizzarono subito come l’autore ai più indecifrabile di album quali Fetus, Sulle corde di Aries o M.lle Le Gladiator rimanesse figura atipica e destabilizzante: a ben vedere, ancor più destabilizzante di prima, poiché il suo obiettivo – raggiunto definitivamente due anni più tardi con La voce del padrone – era donare il proprio sapere, il proprio talento e il proprio pungente sarcasmo non più ad una ristretta élite ma alle platee frivole e in teoria poco ricettive della musica di largo consumo.
Seppure in nuce, L’era del cinghiale bianco contiene tutte quelle che nel breve termine si sarebbero rivelate armi vincenti del nuovo stile di Franco Battiato, compresa l’abitudine di infarcire le liriche di citazioni non solo “importanti” ma anche derivate dalla cultura canzonettistica dell’epoca e del recente passato; citazioni, al di là delle apparenze, tutt’altro che casuali, volte a catalizzare l’attenzione con frasi e nomi noti e nel contempo a creare vivaci contrasti con i richiami “alti” e “nobili” comunque presenti, in un gioco intellettuale di rara arguzia e scevro da sterili effetti-nostalgia. La prima di esse emerge inattesa proprio in L’era del cinghiale bianco, più precisamente in Magic Shop: “C’è chi parte con un raga della sera / e finisce per cantare La Paloma / E giorni di digiuno e di silenzio / per fare i cori nelle messe tipo Amanda Lear”: da un lato La Paloma – il famoso traditional centroamericano – e dall’altro Amanda Lear, ex modella e cantante pop/disco in quegli anni innalzata a simbolo di ambiguità per antonomasia. Sebbene la strofa non brilli per chiarezza di “messaggio”, tra le sue righe sembra già fare capolino lo spirito polemico destinato in futuro a ben più pirotecniche manifestazioni: ad esempio, quella di Up Patriots To Arms (dal successivo Patriots del 1980), dove si eleva il lapidario assioma “la musica contemporanea mi butta giù” e dove il proclama di distaccato dissenso nei confronti della mercificazione – splendidamente autoironico, vista l’accattivante levità dell’episodio – assume la fisionomia di una appassionata filippica (“L’impero della musica è giunto fino a noi carico di menzogne / Mandiamoli in pensione i direttori artistici gli addetti alla cultura / E non è colpa mia se esistono spettacoli con fumi e raggi laser / Se le pedane sono piene di scemi che si muovono”). C’è spazio, in ogni caso, anche per un vezzo, purtroppo messo un po’ in ombra dal tono per lo più duro del testo: il “chi vi credete che noi siam / per i capelli che portiam”, estrapolato da uno dei primi inni del beat nazionale (Come potete giudicar dei Nomadi, 1966). All’insegna di un compiaciuto amarcord, invece, le Good Vibrations (dei Beach Boys) e Satisfaction (dei Rolling Stones) nominate assieme a Sole mio (monca dell’ “‘O” iniziale per ragioni metriche) in Passaggi a livello, che si chiude oltretutto con le parole “Einstein on the beach”: sibilline per chiunque eccetto che per i conoscitori dell’avanguardia, giacché è così che Philip Glass ha battezzato una sua imponente opera.
Appena abbozzata ne L’era del cinghiale bianco, e sviluppata con maggior enfasi in Patriots, l’idea di celebrare con mai irriverente umorismo la canzone pop(olare) autoctona e straniera è coronata in La voce del padrone, che sarà anche l’ultimo album del Nostro a presentare – almeno in maniera così esplicita – tale insolito genere di divertissement linguistico; in particolare, ciò avviene in due brani che non caso sono assurti al ruolo di pietre miliari del Battiato “commerciale”, Bandiera bianca e Cuccurucucu: fenomeni di costume, addirittura, che sostenuti da una programmazione radiofonica al limite dell’ossessivo hanno conquistato ogni categoria di ascoltatori. Merito dei ritmi magnetici, delle armonie leggiadre allestite da Giusto Pio e della geniale orecchiabilità dell’insieme? Senza dubbio, anche se la menzione in questa sede è dovuta ad alcuni dettagli che pochi avranno rilevato, o che al massimo saranno stati frettolosamente classificati come eccentriche facezie. Innanzitutto, in Bandiera bianca (il cui ritornello è “rubato” a una poesia dell’800, “A Venezia” di Arnaldo Fusinato), il doppio omaggio a Bob Dylan delle prime due righe, “Mr.Tamburino non ho voglia di scherzare / rimettiamoci la maglia i tempi stanno per cambiare”: chiunque vanti anche un minimo di pratica con il repertorio del menestrello di Duluth non può non individuare le traduzioni di Mr. Tambourine Man del 1965 (un’hit nella versione proposta nello stesso anno dai Byrds) e The Times They Are-A-Changin’ del 1964, che con un dissacrante accostamento sfociano nella “siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro” dove è citata Figli delle stelle di Alan Sorrenti (fatua filastrocca “dance” baciata nel 1978 da clamorosi consensi di pubblico); infine, dopo un’amena constatazione che non si sa bene come valutare (“A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata / a Vivaldi l’uva passa che mi dà più calorie”) e un j’accuse quasi subliminale (“…e sommersi soprattutto da immondizie musicali”), la conclusione estratta dal memorabile, omonimo esordio a 33 giri dei Doors (“The end… my only friend… this is the end”): The End, tra l’altro riportata in auge proprio in quel periodo dalla colonna sonora di Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Spunti più o meno della medesima brillantezza sono poi offerti da Cuccurucucu, il cui refrain recupera con leggerissime modifiche quello della Cu-cu-rru-cu-cu Paloma di Tomàs Mendèz (a sua volta un tributo a La Paloma, della quale si è già detto a proposito di Magic Shop), eseguita tra gli altri nei ‘50 da Harry Belafonte; il meglio, comunque, sta nelle frasi derivate dai titoli e dalle liriche di svariati classici dei ‘60, legati assieme senza apparente logica: Il mare nel cassetto (il debutto di Milva, Festival di Sanremo del 1961) Le mille bolle blu (Mina, stesso anno e stesso Festival), Il mondo è grigio il mondo è blu (Nicola di Bari, 1968, adattamento italiano di Eric Charden), e ancora Lady Madonna dei Beatles, With A Little Help From My Friends (idem), Ruby Tuesday dei Rolling Stones, Let’s Twist Again di Chubby Checker e lo splendido accorpamento finale di versi di Bob Dylan: “Once upon a time you dressed so fine (l’inizio di Like A Rolling Stone), Mary (magari la “Regina” citata in Just Like A Woman?), like just a woman (licenza poetica o lapsus?), like a rolling stone”. Uno scherzetto da nulla, nel mare magnum  delle intuzioni (di norma ben più erudite) del poliedrico musicista, ma di quelli che strappano l’applauso a qualsiasi cultore della semantica.
C’è dell’altro, però, in La voce del padrone, specificamente in Centro di gravità permanente: un’affermazione entrata negli annales, che si presume non vada interpretata alla lettera bensì nel quadro globale di un rifiuto di vago sapore snobista dei luoghi comuni (“Non sopporto i cori russi, la musica finto rock, la new wave italiana, il free-jazz punk inglese / neanche la nera africana”), e una serie di fantasie canore sulla derivazione delle quali non è possibile avere certezze. Scampoli di testi altrui assemblati assieme senza troppi ragionamenti, oppure una personale invocazione di carattere sentimentale costruita con il secondo fine di far scervellare eventuali aspiranti esegeti? Mistero. La sequenza verbale “Over and over again / You are a woman in love / Come into my life / Baby I need your love / I want your love”, d’altronde, ben si presta ad alimentare equivoci, in virtù dell’assoluta ordinarietà dei termini e dei concetti: e se anche è vero che Ray Charles e Frankie Laine, ad esempio, hanno rispettivamente firmato una Over And Over (Again) e una A Woman In Love, riconoscere loro meriti ispirativi sarebbe probabilmente una forzatura. Così come non avrebbe senso cercare di attribuire una paternità a locuzioni banalissime quali “ho bisogno del tuo amore” o “voglio il tuo amore”.
Sincere dichiarazioni di un’irrefrenabile attitudine ludica o sofisticati arzigogoli cerebrali? Chissà se questo Battiato, maestro di equilibrismi tra (quasi) sacro e (del tutto) profano, risponderebbe ironicamente con il ritornello di un’altra canzone di Bob Dylan. Chi vuol sapere quale recuperi The Freewheelin’ Bob Dylan, A.D. 1963, e faccia un piccolissimo sforzo di immaginazione.
Tratto da Nuove effemeridi n.47 del 1999

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Un pensiero su “Franco Battiato: citazioni

  1. Certo che se quel non “sopportare la New Wave italiana” fosse da prendere alla lettera verrebbe fuori un “contrasto” di niente tra l’autore della canzone e l’autore dell’articolo.

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