Wow (2013)

Il “non stare più nel Mucchio” ha eliminato dalla mia vita un’infinità di seccature e mi ha restituito qualcosa di bello e importante: un po’ di tempo libero da dedicare ad attività che mi piacciono e che, pur essendo legate alla mia professione, non sono esattamente “lavoro”. Ad esempio, assistere allo showcase pomeridiano di un gruppo che ha appena debuttato su disco.

Wow cop“Junk Food” è un negozio di una quindicina di metri quadri, a una dozzina di passi dal fratello maggiore “Soul Food”, dove si vendono solo dischi da dieci euro in giù. In questo spazio, liberato per l’occasione dagli espositori centrali e davanti a una platea – per forza di cose ridotta – equamente divisa fra dentro e fuori il locale, sabato 8 giugno ha avuto luogo la presentazione dell’omonimo 12”EP del terzetto romano Wow: sacro vinile, quindi, peraltro già “pubblicato” nello scorso febbraio in una stampa hand made di dodici copie e disponibile pure in CD-R, cassetta (ambedue su Bubca) e download. L’edizione principale, in trecento pezzi numerati, è marchiata dalla Vida Loca Records, tornata appositamente sul mercato dopo anni di silenzio (qualcuno forse ne ricorderà i lavori di Motorama e Intellectuals): sei tracce, per una durata complessiva di poco inferiore ai venti minuti, all’insegna di un rock-pop ruvido, distorto e sferragliante figlio del lo-fi e allestito con due voci (una femminile e l’altra maschile), chitarra, basso e batteria minimale.
Nell’atipica cornice i ragazzi non si sono risparmiati, destreggiandosi abilmente con un repertorio basato sull’urgenza comunicativa e pregevole sotto il profilo del songwriting: canzoni abrasive e sguaiate, ma assai bene organizzate nelle strutture oltre che dotate di un gran bel respiro melodico, nelle quali affiorano garage e beat, folk e blues, punk e pop, psichedelia deviata e r’n’r primordiale, secondo ricette che potrebbero richiamare alla mente le esperienze pre-Velvet Underground di Lou Reed, i Modern Lovers di Jonathan Richman, le mille avventure di Billy Childish, il “twee” in versione K Records e molto altro indie storico e moderno, il tutto corredato di testi post-adolescenziali in inglese e contraddistinto da intrecci canori pressoché onnipresenti. Di quanto sopra costituisce un ideale biglietto da visita Wow, che si può anche ascoltare su bandcamp: la vivace It Should Be Ready, l’ipnotica e un po’ malsana Baby Go Down, la torpida Human’s Head Flying, l’incalzante Cav Paz, la più cupa Mary e l’evocativa Haircut (dal sapore western) fotografano un gruppo valido e autentico, che avrebbe le capacità e il talento per provare a proporsi in modo più tradizionale e accessibile ma che invece, è evidente, preferisce il suo piccolo mondo di spigoli e carta vetrata. Vederli affrontare la sfida della maggior raffinatezza formale e sostanziale sarebbe di sicuro interessante, ma forse non abbastanza da giustificare il sacrificio della loro naïveté ispida e rumorosa.

Moltissimo altro materiale “storico” sul rock (e dintorni) a Roma qui: http://libri.goodfellas.it/roma-brucia.html

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