Dead Cat In A Bag

Di tanto in tanto mi piace recuperare tutto quello che ho scritto in passato di band/artisti italiani (e non) più o meno di nicchia, perché l’obiettivo primario di questo blog è diffondere cultura musicale anche quando ciò comporta meno visualizzazioni di quelle raccolte quanto gli argomenti sono più popolari (triste faccenda, ma va così). In questo caso sotto gli spot finiscono i torinesi Dead Cat In A Bag, che nel settembre 2022 hanno pubblicato in CD un quarto album di cui, a differenza di quelli che l’hanno preceduto, non ho avuto modo di occuparmi su carta; l’ho fatto allora qui, in parallelo all’uscita in vinile, recuperando per completezza anche le tre vecchie recensioni e scoprendo, rileggendole, di avere usato in tutte l’aggettivo “cavernoso” e di essere ricorso almeno una volta all’autocitazione.

 

We’ve Been Through
(Gusstaff)
Anche se si tratta di una citazione letteraria (Mark Twain) e il trio torinese si impegna nel cercare di convincere che il suo nome non è sinistro, l’immagine di un gatto morto in una borsa non evoca certo sensazioni positive, specie quando si accoppia a una musica dal sapore spesso minaccioso. È in ogni caso un viaggio vivace e appassionante, quello proposto dalla band, tanto nei tre album messi in fila tra il 2011 e il 2018, quanto nei dieci nuovi brani – otto originali e due cover, il tradizionale Wayfaring Stranger e Hunter’s Lullaby di Leonard Cohen – allineati in questo quarto lavoro, forse il migliore del lotto, nel quale il gruppo è rimasto fedele al suo ormai consolidato stile: un’Americana avvolta in arie noir nella quale confluiscono influenze balcaniche e latine e che, a dispetto del suo aspetto apparentemente scarno, si avvale dell’uso di vari strumenti all’occorrenza inusuali maneggiati dai tre titolari e da un ampio stuolo di ospiti, con il canto basso e roco di Luca “Swanz” Andriolo a fungere da elemento di raccordo. Livido ma ricco di colori, per lo più ritmato ma in qualche circostanza pacato e avvolgente, il quadro sonoro folk-country-blues-bandistico dipinto dai Dead Cat In A Bag ha tutto ciò che occorre per affascinare profondamente, con buona pace di chi non guarderà la luna bensì il dito: ovvero, le affinità con Tom Waits, Nick Cave, Mark Lanegan, Calexico, Will Oldham, Micah P. Hinson, Howe Gelb, Black Heart Procession e chi più ne ha più ne metta.

Lost Bags
(Viceversa)
Un gran bel ritorno in pista, dopo alcuni anni di pausa, per la gloriosa Viceversa di Catania: il primo album dei Dead Cat In A Bag, nati come duo di folk deviato e poi evolutisi in una compagine assai più ampia, è uno di quei dischi che difficilmente lasciano indifferenti, vuoi per la voce cavernosa di Luca Andriolo, vuoi per la particolarità di musiche ben poco solari e parecchio “cinematografiche” nelle quali confluiscono strumenti acustici, elettrici, elettronici e “trovati per caso”. Le basi rimangono folk/blues, ma le varie contaminazioni – con il Messico, con i Balcani, con chissà quale terra che non esiste – collocano l’ensemble torinese in una twilight zone dove vagano, inquieti, gli spiriti di Tom Waits e Giant Sand, Nick Cave e Black Heart Procession, Calexico e Will Oldham, Vinicio Capossela e Bachi da Pietra. Il tutto accompagnato da una confezione in bianco/nero altrettanto suggestiva, che odora di polvere e amplifica gli echi di un passato impresso più nel DNA che nella memoria.
(da Il Mucchio Selvaggio n.682 del maggio 2011)

 

Late For A Song
(Viceversa)
A seguire il Lost Bags del 2011, i Dead Cat In A Bag hanno confezionato un‘altra pregevole raccolta di canzoni all‘insegna di un folk per lo più notturno e straniante, i cui toni scuri sono enfatizzati dal canto cavernoso e sofferto. Per il gruppo torinese un nuovo viaggio fra cantautorato essenziale, sonorità bandistiche, atmosfere cinematografiche, blues, country, Messico e Balcani, che al confronto con il primo album ha guadagnato in consistenza e sfumature senza perdere in genuinità e ispirazione.
(da Blow Up n.193 del giugno 2014)

 

Sad Dolls
And Furious Flowers
(Gusstaff)
Giunti al terzo capitolo di una vicenda avviata sette anni fa, i Dead Cat In A Bag ribadiscono le qualità della loro formula, un folk-rock dai molteplici riferimenti geografici che evoca suggestioni cinematografiche e teatrali e che alla luce del sole preferisce le tenebre; un sound surreale ma a suo modo seducente, di base elettroacustico ma punteggiato di elettronica e strumenti inusuali oltre che marchiato da un canto in inglese ruvido e cavernoso, che si muove in una twilight zone nella quale sono riconoscibili i profili spettrali di Giant Sand e Black Heart Procession, Calexico e Tom Waits, Bachi da Pietra e Vinicio Capossela. Il materiale è autografo, con le sole eccezioni di una efficace cover di Venus In Furs dei Velvet Underground e di una The Clouds che accoppia un testo di Shakespeare a una musica ispirata da Domenico Modugno; c’è di che rimanere spiazzati ma è uno straniamento positivo, ricco di stimoli, a tratti persino inebriante nella sua malinconica e pur sinistra godibilità.
(da Blow Up n.241 del giugno 2018)

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