Bologna Rock, 1976-1979

Quasi dieci anni fa Il Mucchio, ai tempi settimanale, dedicò la copertina a Lavorare con lentezza, il film di Guido Chiesa ambientato nella Bologna della seconda metà dei Settanta. Viste le strette connessioni musicali, arricchii l’articolo cinematografico con un piccolo inquadramento della scena cittadina dello stesso periodo.

Bologna Rock copNoi Skiantos, nel 76/77, ci mettemmo assieme senza troppa convinzione con la voglia di fare casino. Volevamo rompere la retorica, farla finita con le melodie italiote e melense, sbudellare subito l’odiato cantautore e le sue deprimenti depressioni. Volevamo anche divertirci. Poi volevamo fare i furbi. Insomma: eravamo smaniosi. Quando cominciammo, gli Skiantos non sapevano suonare… E questa era l’idea: fare un gruppo rock di gente che non sa suonare, con cantanti stonati (di rinforzo). La gente stupida non considera l’energia dell’errore e la vitalità del rock. Gli intellettuali usano il nonsenso calibrato, non il demenziale pesante. Facevamo cose semplici e volutamente stupide. Non solo perché eravamo imbecilli, ma anche perché sceglievamo di esserlo. In senso petroliniano. Facevamo rime baciate, poesie da scuola elementare. Istintivamente avevamo intenti di rottura. Qualche volta deliravamo anche (volentieri)”. (Roberto “Freak” Antoni, primi ‘80)
A osservarla dall’esterno, o comunque con la superficialità che è tipica dei turisti non abbastanza motivati, la scena rock bolognese di metà anni ‘70 sarebbe apparsa… cioè, no, non sarebbe apparsa: per chiunque, il capoluogo emiliano era la patria di Francesco Guccini, bolognese peraltro d’adozione che nel 1976 aveva conosciuto la notorietà davvero di massa con Via Paolo Fabbri 43 (l’album de L’avvelenata), e di altri menestrelli come Claudio Lolli (sempre del ‘76 è il suo capolavoro Ho visto anche degli zingari felici, manifesto politico di notevole profondità) o Lucio Dalla, che con Automobili – il disco di Nuvolari – aveva appena chiuso la trilogia nata dal sodalizio con il poeta Roberto Roversi. Cantautori, insomma, interessati più alla forza delle parole che all’energia della musica. E il rock? Lasciando fuori l’anomalia Andrea Mingardi e il suo soul-blues in salsa padana, non c’era; o, meglio, esisteva in nuce nelle cantine, praticato in modo decisamente naïf da gruppi di giovani in cerca di un’alternativa alla militanza politica forse un po’ troppo ingessata dei tempi. I più “anziani” erano i Windopen di quel Roberto Terzani che nei tardi ‘80 avrebbe sostituito Gianni Maroccolo nei Litfiba, all’inizio dediti a una musica di indirizzo psichedelico/freak, e Freak Antoni e la Demenza Precoce, sgangherata congrega demenziale di “pestoni” che di lì a poco avrebbe adottato un nuovo nome meno arzigogolato, Skiantos. Di “scena”, però, non si poteva parlare: si cominciò a farlo solo nel 1978, quando una serie di esperienze aggreganti – da Radio Alice all’omicidio Lorusso, fino al convegno sul dissenso che nel settembre ‘77 aveva aperto una profonda spaccatura nel movimento giovanile cresciuto negli ambienti studenteschi – sfociarono in un boom di creatività artigianale libera e selvaggia che ebbe per detonatore il Centro d’Urlo Metropolitano (di lì a pochissimo ribattezzatosi  Gaznevada), band approssimativa ma piena di idee che con il brano Mamma dammi la benza – proiettate la mente a quei giorni di molotov e shakerate con ironia – aveva scosso un tot di coscienze proprio durante il convegno.
Dato che realizzare dischi era una faccenda seria e costosa, Skiantos, Windopen e Gaznevada debuttarono con altrettante musicassette pubblicate e precariamente diffuse dalla Harpo’s Bazaar, cooperativa polivalente con sede in Via S. Felice votata a progetti audiovisivi (possedeva un piccolo studio di registrazione) e iniziative di agitazione socio-culturale: non a caso uno dei suoi “attivisti” veniva dall’organizzazione Hupty Dumpty, che aveva assemblato due cassette denominate “Sarabanda” (in una stralci dalle ultime trasmissioni di Radio Alice, nell’altra pezzi di artisti del movimento tra i quali Mamma dammi la benza). Nel catalogo Harpo’s, anche nastri di altre formazioni locali nel frattempo costituitesi (Luti Chroma, già titolari di un orrido singolo autoprodotto, e Naphtha) e l’istantanea sonora del “Bologna Rock”, festival che il 2 aprile del 1979 vide sfilare sul palco del Palasport Rusk und Brusk, Bieki, Naphta, Confusional (Jazz Rock) Quartet, Cheaters, Windopen, Luti Chroma, Skiantos (che invece di suonare misero a cuocere la pasta), Andy Forest Blues Band e Gaznevada. Mancavano, perché “fuori contesto”, i riformati Judas del cantante Martò, che nei ‘60 contendevano ai primi Pooh lo scettro di miglior gruppo beat cittadino e che nel ‘78 erano riapparsi a sorpresa con un album “punk” (tra molte virgolette) edito dalla Spaghetti. Un raduno semi-plenario, il “Bologna Rock”, che tra contestazioni ludiche (e non) da parte del folto pubblico funse in pratica da suggello a quel periodo di ingenuità e fantasia, anche se gli Skiantos (e i Windopen, seppure per un unico 45 giri) erano ormai legati alla Cramps e altri protagonisti della serata – Gaznevada, Confusional Quartet, Andy Forest, Luti Chroma – stavano chi più chi meno per farsi notare a livello nazionale con i vinili marchiati dalla Italian Records, diretta filiazione della Harpo’s Bazaar. Ma questa è un’altra storia…

Tratto da Il Mucchio Selvaggio n.595 del 12 ottobre 2004

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