Mars Volta (2003-2006)

Ricordo fin troppo bene quando, fra i quindici e i dodici anni fa, i Mars Volta erano oggetto di accese, accesissime discussioni tra appassionati. Poche band sapevano dividere come loro e io, da già attempato professionista, mi trovavo nel mezzo, un po’ ammirato e un po’ contrariato e pertanto costretto a fare la figura del “cerchiobottista”, di quello che non vuole schierarsi; in realtà, la mia posizione nei confronti del gruppo americano era genuinamente ambigua e i miei scritti lo riflettevano, come si può vedere da questa sequenza che comprende la recensione del primo album, una sorta di mini-articolo di riflessioni varie realizzato in occasione del secondo e altre due recensioni, quelle di un live e del terzo capitolo vero e proprio. In seguito, nel 2008, mi sarei concesso il piacere di una lunga intervista che accompagnò una copertina del Mucchio, dopo la quale in pratica smisi di occuparmi dei Mars Volta, in quanto stanco di ribadire sempre gli stessi concetti

De-Loused In The Comatorium
(GSL)
Provate a immaginare un incrocio in chiave più crossover tra Rush e Yes e avrete un’idea accettabile del suono di questo primo album dei Mars Volta, la cui indole prog è dichiarata anche dall’impostazione concept: insomma, non proprio il tipo di disco che ci si sarebbe potuti attendere – a meno di non avere ascoltato il Tremulant ep del 2002 – da una band capitanata dal cantante Cedric Bixler e dal chitarrista Omar Rodriguez-Lopez, già in forza agli At The Drive-In. Eppure, è proprio così: i dieci episodi di De-Loused In The Comatorium, ispirati alla figura e alla vita dell’artista di El Paso Julio Venegas (un amico di Bixler morto suicida nel 1996 dopo aver sperimentato ogni sorta di eccesso) e co-prodotti nientemeno che dal vate Rick Rubin, costituiscono a tutti gli effetti un’autentica opera rock, di quelle che il punk aveva cacciato a calci in culo dalla porta e che invece rientrano all’improvviso dalla finestra e si accomodano anche nel salotto buono. Fuor di metafora, De-Loused In The Comatorium è un lungo gioco di “botta e risposta” tra gli arditi gorgheggi di Cedric e gli onanismi chitarristici di Omar, il tutto sostenuto da ritmiche per lo più serrate e incalzanti in un’atmosfera a metà strada fra allucinazione e delirio; uno stile mutante dove non è semplice capire cosa sia improvvisato sulla base dell’istinto espressivo o dell’emozione e cosa sia, al contrario, il risultato di aride masturbazioni a tavolino, e dove il gusto dell’evocatività che solitamente si accompagna al genere – si pensi agli A Perfect Circle, band parallela di Maynard James Keenan dei Tool – è soffocato da affastellamenti sonori e virtuosismi sui quali si stende opprimente l’ombra del kitsch.
C’è molta carne al fuoco, in quest’ora di elucubrazioni strumentali e canore tra rock, metal, jazz e qualche accenno di esotismo, e forse c’è anche il sincero desiderio – un po’ ambizioso, magari – di tentare di proporre qualcosa di nuovo, ma alla fine l’impressione è che i Nostri si siano lasciati prendere troppo la mano e abbiano strangolato le potenziali buone idee con la corda dell’autocompiacimento. Non voglio dire che De-Loused In The Comatorium sia una porcheria assoluta e non voglio negare che al suo interno si celino spunti di un qualche interesse estetico e in (minima) parte creativo, ma non ho dubbi sul fatto che potrei riaffidarlo al lettore CD solo se obbligato da eventuali oneri professionali: padroni di dissentire ma il piacere dell’ascolto, almeno per quanto mi riguarda, risiede decisamente altrove.
Tratto da Il Mucchio Selvaggio n.542 del 15 luglio 2003

Frances The Mute
(GSL)
C’è un termine che in ambito rock, al di fuori delle cerchie molto spesso sbeffeggiate dei seguaci del genere, proprio non si può pronunciare, ed è “progressive”: una parolaccia che evoca subito l’idea della negazione del rock’n’roll con l’immagine di muri di tastiere, batterie mastodontiche, chitarre multimanico e gorgheggi alla Farinelli, il tutto shakerato in suite estremamente complesse che sembrano puntare solo all’ostentazione delle capacità tecniche dei musicisti coinvolti e magari ad affermare il principio che per farsi “arte” il rock sia costretto a contaminarsi con forme stilistiche nobili come la classica e il jazz. Ma è davvero sempre così? No, anche se il feroce dibattito fra estimatori e detrattori è destinato a continuare a dividere critica e pubblico. E alla querelle contribuiscono i Mars Volta, che a dispetto delle smentite di parecchi fan nel prog sguazzano allegramente, per loro stessa ammissione e senza mostrare un filo di imbarazzo.
Già. Perché, nonostante le troppe degenerazioni che ne hanno funestato il percorso consacrandolo – sempre per i non adepti – a paradigma della ridondanza, dell’estetica fine a se stessa e degli onanismi a-go-go, la dottrina sulla quale all’inizio si fondava il progressive era quella del superamento in senso evolutivo dei canoni rock; un concetto per più di verso in linea con quella psichedelia che al prog ha fornito numerosi spunti, dalla lunghezza dei brani alla loro indole evocativa fino alla tendenza all’elucubrazione strumentale. Sbagliano grossolanamente, però, quanti facendo di ogni erba un fascio attribuiscono a tutti i progster le stesse prerogative, e soprattutto quanti tacciano di ottusità o eccessi di rigidità creativa chiunque operi in tale area. Valgano come prove a discarico, oltre alle carriere, le dichiarazioni di artisti di livello quali Peter Hammill, Peter Gabriel o Robert Fripp. “Scopo fondamentale dei King Crimson è organizzare l’anarchia, utilizzare il potere latente del caos e permettere a svariate influenze di interagire e trovare il loro equilibrio. Di qui la musica si evolve secondo una propria natura, invece di svilupparsi per linee predeterminate. Il repertorio, ampiamente variabile, ha come tema comune il rappresentare gli umori mutevoli delle stesse cinque persone”. Così, nel lontanissimo 1969, il chitarrista e leader del Re Cremisi, band-cardine nella storia del progressive che, nei suoi trentacinque anni di pur frammentaria esistenza, ha saputo mantenersi fedele allo spirito originario di quello che presto divenne una “moda”, evitandone però la sclerosi.
Ora, proviamo a sostituire “le stesse cinque persone” con “le stesse due persone” e le parole potrebbero essere state pronunciate oggi da Cedric Bixler o da Omar Rodriguez-Lopez, le menti dietro i Mars Volta; come si diceva, un gruppo attitudinalmente “prog” che non nasconde le proprie ascendenze ideali. Anzi, il gruppo contemporaneo che forse meglio di ogni altro interpreta l’essenza più antica, pura e propositiva del prog. Dati inoppugnabili della parte dalla quale i Nostri abbiano deciso di stare? Che il nuovo album, Frances The Mute, sia – come il precedente De-Loused In The Comatorium, del 2003 – strutturato come concept, per di più di argomento piuttosto visionario (e i titoli non consentono di nutrire dubbi in merito); che contenga solo cinque tracce, tre delle quali divise in più “movimenti”, le cui durate spaziano dai sei minuti di The Widow alla mezz’ora abbondante della conclusiva Cassandra Gemini (in pratica, una saga epica) passando per i circa tredici ciascuna di Cygnus… Vismund Cygnus, L’Via L’Viaquez e Miranda That Ghost Isn’t Holy Anymore; che le copertine dei due dischi – d’impatto, magari, ma certo non belle – siano opera di Storm Thorgerson, metà di quello studio Hipgnosis la cui fama è dovuta ai lavori realizzati, guarda caso, nei ‘70 per Led Zeppelin e Pink Floyd; che la dimensione nella quale l’ensemble americano sviluppa meglio il proprio potenziale espressivo sia quella del palcoscenico; che nelle architetture musicali prevalga il gusto del barocchismo, dell’arzigogolo, della fuga dalla canzone tradizionalmente intesa, della ricerca di schemi di ampio respiro. Poi, è ovvio, i Mars Volta non potrebbero mai essere confusi con una band di sei/sette lustri orsono, anche se dal loro sound emergono umori zeppeliniani, escursioni vocali che non sarebbero dispiaciute agli Yes, aperture etno/funk/jazz, persino divagazioni latine quasi alla Santana; non potrebbe essere diversamente, considerato che nel tempo intercorso fra la prima generazione e quella attuale ci sono stati il punk, la new wave, l’hip-hop, il crossover e quant’altro, e che le radici di Cedric e Omar siano in quegli At The Drive-In che nella seconda metà dei ‘90 si erano distinti con un estroso cocktail di rock’n’roll mutante di elevato tasso energico-abrasivo.
I Mars Volta sono insomma i portabandiera di un (autentico) progressive del terzo millennio, dotato – mutatis mutandis, va da sé – della stessa spinta espansiva di quello primigenio? Tutto lo fa pensare. E pertanto conviene abituarsi alla prospettiva di una formazione che non smetterà affatto di dividere: esaltando taluni con il suo lucido, sciamanico e imprevedibile ibrido a 360 gradi e lasciando ad altri solo sensazioni forti ma più cerebrali-intellettuali che emotivo-fisiche come la sorpresa, l’ammirazione, il (massimo) rispetto.
Tratto da Il Mucchio Selvaggio n.608 del marzo 2005

Scab Dates
(GSL)
Molto si è discusso, e potete star certi che ancora molto si continuerà a farlo, sui Mars Volta: non tanto sulle loro doti artistiche assolute, che ora come ora appaiono davvero difficili da negare, quanto piuttosto sulla loro capacità di incanalarle in progetti – siano essi canzoni, dischi o performance – definibili come compiuti. A ribadire il principio provvede questo Scab Dates, sorta di compendio degli ultimi tour: non un doppio o un triplo CD, come da indole “megalomane” della band, e neppure – come sarebbe stato logico e auspicabile – un bel DVD con uno o più esibizioni, ma uno semplice dischetto di settantadue minuti con ben poche autentiche canzoni (due da De-Loused In The Comatorium, nessuna da Frances The Mute; c’è però l’ottima Concertina, in origine sul Tremulant ep) che si elevano da una convulsa sequenza di intro, code e più o meno efficaci jam avant-hard-prog-jazz. Pro e contro? L’audacia delle trame e la forza visionaria delle atmosfere da un lato, gli eccessi di dispersività dall’altro. Ma i Mars Volta sono fatti così, e una volta in più si tratta solo di prendere o lasciare; al di là di ciò, il collage di Scab Dates dà comunque l’idea di essere solo in minima parte rappresentativo di quello che il gruppo è in grado di dire, e dare, sul palco.
Tratto da Il Mucchio Selvaggio n.617 del dicembre 2005

Amputechture
(GSL)
Esce un nuovo album dei Mars Volta, e noi che non apparteniamo alla folta schiera dei loro ultrà ma proviamo a valutarne l’operato in modo quanto più possibile obiettivo siamo costretti a ripetere sempre le stesse cose: che l’impatto con la copertina è di istintiva repulsione tanto quanto è di estrema fascinazione quello con il titolo, e che – dopo più ascolti, perché certa musica difficile va approfondita a dovere e non affrontata con superficialità – la band americana non è stata capace di convogliare il suo (enorme) talento in un incontrovertibile capolavoro, in uno di quei dischi così autorevoli da zittire qualsivoglia detrattore. Cedric e Omar continuano invece a essere pur genialmente dispersivi, incapaci (o disinteressati?) a mettere un ordine che possa definirsi tale in una creatività esuberante e fuori dagli schemi: ed è forse anche questo che tanto intriga/appassiona i loro fan, che sono riusciti a innamorarsi perdutamente persino di quell’occasione mancata – ci voleva come minimo un doppio DVD – del conciso live Scab Dates.
Amputechture, insomma, non risolve l’enigma Mars Volta, ma lo ripropone in tutta la sua arzigogolata natura con otto episodi molto o moltissimo dilatati (escluso Vermicide, appena 4’20”) dove l’impressione di scarsa coerenza – concettuale più che sonora – si avverte in modo persino più marcato rispetto a De-Loused In The Comatorium e Frances The Mute. Il risultato è una caleidoscopica, avvolgente orgia di rock free form nel quale le “canzoni” sono pretesti per avventurose fughe verso territori alieni nei quali c’è spazio per l’hard, il jazz, la psichedelia, la sperimentazione, l’immancabile progressive e addirittura il folk chicano (più che emblematica, in tal senso, la rarefatta Asilos Magdalena). Si arriva alla fine dell’ora e un quarto di programma rapiti e attoniti da cotanto sfoggio di complessità ed eclettismo, ma ci si ritrova anche a chiedersi “e allora?”. Ma magari il segreto sta nel non porsela, quella fatidica domanda, e lasciarsi solo trasportare nel ventre della bestia.
Tratto da Il Mucchio Selvaggio n.626 del settembre 2006

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6 pensieri su “Mars Volta (2003-2006)

  1. Donald

    Ho riascoltato di recente i primi 3 e mi sono sembrati di una pesantezza assoluta, difficilissimi da digerire. Forse effettivamente il primo è quello più “divertente” da ascoltare, forse per quello molti lo preferiscono. In ogni caso li ho decisamente messi da parte

  2. Luca Paisiello

    Band fantastica, Frances The Mute è un piccolo capolavoro e altre canzoni come Goliath roba da far paura. I lavori successivi Omar Rodriguez apprezzabili ma i Mars Volta mi mancano tantissimo.

  3. backstreet70

    Scusa Federico (magari sbaglio io) ma la prima copertina postata non è di un album degli At the drive in ?

  4. simonevarazze

    un gran gruppo, anche se secondo me, solo il primo album è veramente di grande valore. Dopo ho paura che le droghe abbiamo avuto il sopravvento. bell’ articolo cmq !

    • Grazie. Come ho scritto altrove, il primo album è però anche il meno rappresentativo dell’intero progetto. Insomma, al di là di ogno discorso di qualità, non rende appieno l’idea di cosa siano stati i Mars Volta. È curioso che a tanti dei Mars Volta piaccia l’album che di tutti è il “meno MArs Volta”. 😀

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