All’epoca in cui ho iniziato a seguire seriamente la musica, i Quintessence si erano appena separati, cosa che – suppongo – mi indusse a considerarli “vecchi” e pertanto immeritevoli di approfondite attenzioni rispetto ai gruppi del presente (di allora). Più avanti, quando mi sono dedicato alla scoperta di tutto quello che mi ero più o meno perso, li ho sì ascoltati un po’ meglio, classificandoli però subito come “minori” e, di conseguenza, prescindibili. La frequentazione di questo box mi ha fatto però pensare di essere forse stato troppo tranchant, anche se è ovvio che non si sta parlando di una band epocale. Ma neppure priva di motivi di interesse.
Move Into The Light
(Esoteric)
Non contando le antologie e i tre live pubblicati nell’ultima decina di anni, due con materiale d’epoca e uno concepito come testimonianza dell’episodica (e parziale) reunion del 2010, la discografia dei Quintessence comprende cinque album, due editi dalla RCA nel 1972 e tre marchiati dalla Island fra il 1969 e il 1971. Sono proprio questi ultimi, a cominciare dall’esordio In Blissful Company per arrivare a Dive Deep passando per Quintessence, gli articoli più pregiati del catalogo, nonché quelli adesso condensati in Move Into The Light assieme a un paio di rarità. A meno di ulteriori rinvenimenti, che comunque non potrebbero aggiungere alcunché di decisivo, si ha dunque a che fare con l’opera omnia in studio della band londinese per la storica etichetta di Chris Blackwell, naturalmente con il bonus – perché alla Esoteric amano lavorare come si deve – di un esauriente libretto.
Classificati in genere alla voce progressive, i Quintessence erano in realtà qualcosa di più particolare e, se vogliamo, eccentrico. Avevano senza dubbio molti punti di contatto, sul piano dell’approccio, con il genere in questione, ma il loro sound si teneva a distanza dal rock sinfonico e dai flirt con la musica classica; semmai, denotava la sua discendenza dalla psichedelia più esoticheggiante (gli agganci all’India, con uso di strumenti tradizionali, sono pressoché infiniti) e non disdegnava aperture di gusto jazzy. Come esperienze affini, insomma, si è costretti a citare la scuola di Canterbury o al limite i Sam Gopal, non certo i Van Der Graaf Generator, gli Yes o i Genesis. Una formula complessa e avventurosa, benché un po’ ripiegata su se stessa e magari invecchiata non proprio splendidamente, in grado di garantire “viaggi” intriganti e fascinosi; più “contemplativi”, per così dire, che tendenti all’acido e al conturbante.
Tratto da AudioReview n.387 del maggio 2017