Sì, sono un po’ entrato nel mood “anni ‘80”: ecco allora una breve monografia, risalente al 1983, su quella band magnifica che erano i Fleshtones: ovviamente didascalisca e, sul piano giornalistico, di un’ingenuità che imbarazza, ma traboccante entusiasmo e voglia di condividerlo. Del resto avevo appena ventitré anni, vivevo una stagione musicale formidabile e il mio lavoro mi consentiva di vestire i panni del divulgatore… come potevo non essere un minimo, come dire?, esaltato? Oggi i Fleshtones esistono ancora e tengono botta, anche se non possono più essere la forza della natura di tre decenni fa; se disgraziatamente non li conoscoscete, i dischi commentati nelle righe qui sotto sono comunque i primi ai quali è il caso di dedicare attenzione.
“Have you heard the american sound / I want to hear it on the radio in my hometown” sono le parole del ritornello di American Beat, lato A del 45 giri d’esordio dei Fleshtones. Quel “sound americano”, adesso, è alla portata di tutti, nelle canzoni di una delle più grandi rock’n’roll band che abbiano mai calcato le scene negli ultimi anni. È una musica energica e rabbiosa, e contemporaneamente melodiosa e carezzevole, è un sound profondamente attuale che si ispira al passato senza dimenticare che siamo nel 1983. Fleshtones è il gruppo rock più eccitante del momento.
Si era nel novembre 1978 quando il noto mensile “New York Rocker” pubblicò in copertina una frase di quelle che non lasciano indifferenti: “I have seen the future of rock’n’roll and it is the Fleshtones!”. Non poco, per una band pressoché sconosciuta al di fuori della Big Apple e ancora priva di qualsiasi prodotto discografico, che si esibiva in locali angusti e fumosi davanti a una piccola cerchia di fan. Eppure, “New York Rocker” aveva visto giusto nel predire al complesso un luminoso futuro; un futuro che, pur non essendo ancora stato estremamente gratificante dal punto di vista della notorietà, lo è di sicuro a livello artistico. La storia inizia nel 1976, con il consueto iter di concerti nei piccoli club newyorkesi. I Fleshtones erano allora un quintetto (con Jimmy Bosco alla batteria e Michel Montiglione, poi sostituito da Danny Gilbert, alla chitarra) di belle speranze non ancora concretizzatesi, confusi fra le centinaia di garage-band in attesa del classico colpo di fortuna che consentisse loro di emergere dal semi-anonimato. Nel frattempo si era giunti all’estate del 1978; la line-up si era ormai stabilizzata, con Peter Zaremba (voce, organo e armonica), Keith Streng (chitarra), Jan Marek Pakulski (basso) e Lenny Calderone II (batteria), e per il gruppo giungeva finalmente l’occasione di dimostrare le sue doti, grazie all’interessamento di due eminenti personalità del giro: il critico di “New York Rocker” Andy Schwartz e il cantante dei Suicide Alan Vega. Schwartz, con toni quasi epici, descrive così il suo primo incontro con l’eclatante realtà Fleshtones. “In un’umida notte estiva del 1978 stavo vagando per il minuscolo Club 57 a St. Mark’s Place, quando mi trovai circondato da una folla compatta di corpi danzanti e volti sorridenti. La prima fila dell’audience era a pochi centimetri di distanza dalla band. un quartetto, che si trovava sul pavimento del locale minacciando di far esplodere l’amplificazione economica con il loro sound. L’alto, infaticabile cantante urlava parole incomprensibili e suonava la sua armonica nel microfono, cimentandosi in una specie di danza a metà fra il modo di camminare del pinguino, della scimmia e del cammello. Il chitarrista, con ciuffi di capelli che gli cadevano sugli occhi azzurri, martellava le corde con potenza ed eseguiva stridenti assoli, mentre si lanciava avanti e indietro sul ‘palco’ o si gettava fra il pubblico. Il bassista e il batterista picchiavano disperatamente nel tentativo di andare al passo con i loro compagni. ‘Chi sono?’, gridai nell’orecchio di un mio sudato vicino. ‘Come, non lo sai?’, mi rispose, ‘sono i Fleshtones!’”. È lo stesso Andy a fornire un’efficace descrizione del sound del complesso in quel periodo. “Era una miscela, unica e senza tempo, di proto-punk dei mid-Sixties (? & The Mysterians, Count 5…) e R&B anni ‘50 alla Little Richard, con aggiunti sprazzi di surf music e soul alla James Brown”. La carica e la vitalità dei Fleshtones non mancavano di impressionare anche Alan Vega, che li segnalava subito a Marty Thau, ex manager dei New York Dolls e proprietario della Red Star Records (la label per la quale i Suicide hanno realizzato il loro primo, storico LP). Il contratto veniva firmato nel luglio 1978 e un mese dopo la band iniziava le registrazioni di un LP, previsto per il gennaio del 1979 e prodotto dallo stesso Thau. Il disco, però, non ha mai visto la luce, ed è stato solo grazie alla solita ROIR che i nastri sono stati pubblicati, quasi quattro anni dopo l’incisione, in una preziosa cassetta, Blast Off!.
La storia discografica del gruppo, in effetti, comincia proprio con le tredici composizioni di Blast Off!, che non hanno nulla da invidiare a quelle delle successive produzioni viniliche di Zaremba e soci; fra esse troviamo Soul Struttin’ (un vecchio brano firmato da Marty Thay e Tony Orlando), la versione originale di Shadowline (poi riregistrata ed inclusa, assieme all’inedita F-F-Fascination, nella raccolta 2×5 e definita da Michael Goldberg di “Trouser Press” “una canzone assassina che può lacerarvi il cervello come la prima volta che avete udito Gimme Shelter degli Stones”) e altri brani eccellenti come Judy, Comin’ In e Watch Junior Go!, per non parlare di American Beat e Critical List (paragonabile, secondo Andy Schwartz, a Come On dei Rolling Stones), entrambe edite su 45 giri; fra i pezzi altrui, oltre la già citata Soul Struttin’, non si possono dimenticare Cara-Lin degli Strangeloves, Rockin’ This Joint (un classico blues di Kid Thomas), e, soprattutto, l’incredibile Rocket U.S.A. dei Suicide, con un favoloso Alan Vega alla voce e i Fleshtones a creare il background sonoro come solo loro sanno fare. La mancata uscita dell’album demoralizzava non poco i musicisti, che vedevano sfumare la concreta possibilità di una affermazione totale a livello di pubblico; incredibile a dirsi, ma con tutta la critica newyorkese ai loro piedi i Fleshtones non riuscivano a vedere pubblicato un disco già rifinito in ogni particolare.
A seguire la pubblicazione della raccolta Marthy Thau Presents 2×5 (con Revelons, Student Teachers, Comateens e Bloodless Pharaohs), nel 1980, il gruppo otteneva un nuovo contratto, questa volta con la più potente I.R.S. di Miles Copeland. Up-Front, un EP 12” con cinque composizioni, apriva una nuova fase della carriera dell’ensemble, che aveva nel frattempo sostituito Calderone con l’attuale drummer, Bill Milhizer. Up-Front è un concentrato esplosivo di rock’n’roll di alto livello, a cominciare dall’iniziale The Girl From Baltimore per proseguire con l’ipnotica Cold, Cold Shoes, la scatenata Feel The Heat, il bellissimo remake di Play With Fire dei Rolling Stones dall’arrangiamento assai particolare e la quasi strumentale The Vindicators, sigla dal fascino conturbante. Sixties ed Eighties, grinta e melodia, potenza e dolcezza si fondono in un sound sempre elettrizzante, dove ritmo, raffinatezza e spontaneità confluiscono mirabilmente, dando vita a un rock viscerale, dalle venature psichedeliche e dal cuore soul; in Up-Front fa il suo ingresso il sax di Gordon Spaeth (che, dopo varie collaborazioni esterne, entrerà stabilmente in formazione solo con il recente Hexbreaker!), affiancandosi con autorità all’armonica e all’organo di Zaremba, vero animatore del pirotecnico suono Fleshtones.
Dopo Up-Front, consueta pausa di riflessione, e, alla fine del 1981, il gruppo riusciva ad attuare il sogno che inseguiva da quasi sei anni. Sempre per la I.R.S., e con la produzione di Richard Mazda, usciva Roman Gods, il sospirato debutto a 33 giri in grado di provare, una volta per tutte, l’assoluta validità del discorso portato avanti dalla band. Un album eccezionale: gli anni di esperienza hanno reso i quattro più professionisti senza nulla togliergli della devastante carica originaria, e le canzoni sono tutte capolavori di dinamismo e feeling, oltre a essere impeccabili dal punto di vista strutturale: The Dreg, Stop Fooling Around, The World Has Changed (edita anche come singolo, con sul retro l’inedita All Around The World), una nuova versione dell’intramontabile e sempre splendida Shadowline, la cover di Ride Your Pony e la sofferta title track, un vero anthem. Alla domanda su cosa significhi rock’n’roll, Peter risponde con molta semplicità, sintetizzando il Credo dei Fleshtones: “Emozione, liberazione, beat e ritmo. L’essere virtuosi degli strumenti non è fondamentale, ma non è neanche un problema. Ritmo, liberazione e catarsi, queste sono le cose davvero importanti”.
Un anno e mezzo dopo Roman Gods, cioè pochi mesi fa, la I.R.S. ha pubblicato il nuovo 33 giri, Hexbreaker!. I Fleshtones sono ormai una band in ascesa, hanno fatto da spalla ai Police (non ottenendo però molti consensi da parte dei ragazzini americani accorsi per ascoltare Sting e soci) e hanno raccolto commenti entusiastici un po’ in tutto il mondo; il momento, quindi, è propizio per un’ulteriore conferma, e non appena le prime note dell’iniziale Deep In My Heart cominciano a spandersi per la stanza, si ha la certezza che gli “Dei romani” hanno fatto un altro miracolo. Hexbreaker!, come dicono le note di copertina, non è solo il nuovo LP dei Fleshtones, ma è anche the wildest, most emphatic, most super-rock record yet! (lascio in inglese perché nessuna traduzione in italiano risulterebbe altrettanto convincente); la maschera di diavolo che troneggia in ambo le foto di copertina pone l’accento sulla presunta natura satanica della vera essenza rock’n’roll, quella stessa essenza che ha reso famosi Rolling Stones o Doors. Già, perche i Fleshtones, al pari delle band di Mick Jagger e Jim Morrison, incarnano quel feeling ambiguo e crudele, ma contemporaneamente affascinante, che è asse portante del rock “così-come-deve-essere”. Ascoltate New Scene, sembra We Ain’t Got Nothing Yet dei Blues Magoos, e giudicate voi se Streng, Zaremba, Pakulski, Milhizer e Spaeth non meritano un posto di tutto rispetto nell’Olimpo dei rocker. Approfondire il discorso su Hexbreaker!, come avrei voluto fare originariamente, mi sembra a questo punto inutile: perché scavare, con vuote parole, in un lavoro che da solo presenta argomenti molto più efficaci e interessanti di qualsiasi mia considerazione? Chiudiamo, invece con le parole del solito Andy Schwartz, tratte dal solito “New York Rocker”. “Cosa c’è di così eccezionale nei Fleshtones? Niente, questo è eccezionale. Potrebbero essere chiunque: i ragazzi della porta accanto o quelli del tuo quartiere appoggiati alla macchina del vicino in una notte d”estate, bevendo birra sulla veranda o suonando troppo forte in un garage di Queens finché qualcuno non chiama la polizia. I Fleshtones non sono stelle, o poseur, o fighetti. Loro sono in qualche modo una scomoda congrega di individui un po’ sregolatí che, assieme, formano naturalmente una band rock’n’roll”.
Tratto da Il Mucchio Selvaggio n.68 del settembre 1983
Questo album, e la cassetta della Roir, hanno veramente cambiato la mia vita musicale, fino ad allora avevo ascoltato moltissimi album, ma questi 2 capolavori mi hanno dato la spinta verso la ricerca di oscuri gruppi anni sessanta per poi scoprire in pochi anni che preferivo il garage, la psych ed il mio amatissimo ozrock degli ottanta a quelli del ventennio precedente.
A proposito di aussie, ho appena scoperto grazie ad un amico di quelle parti un 10″ veramente incredibile – Arctic Circles – Time – 1986. Magari ai tempi ne hai parlato ma mi è sfuggito.
Ciao ugo