Laurie Anderson (1985)

So che quanto sto per raccontare potrebbe squalificarmi ai vostri occhi, ma lo dico lo stesso. Sapete qual è la prima cosa che mi viene in mente quando mi imbatto (in qualsiasi modo) in Laurie Anderson? Il bellissimo tour program che trentadue anni fa comprai alla performance romana di United States I-IV e che Maurizio Bianchini – suppongo che tanti sappiano chi è – non mi ha mai restituito dopo che, ai tempi di Velvet, gliel‘avevo prestato su sua insistente richiesta. Non che me l‘abbia fregato apposta, ma chissà che fine gli ha fatto fare. È dunque non senza disappunto che ho riletto, per recuperarlo, questo articolo sull‘artista americana: per lo spiacevole ricordo e anche perché la mia prosa anni ‘80 era davvero troppo spesso didascalica e poco brillante.
Anderson fotoL‘artista. Di lei sapete o dovreste sapere già tutto. Dilungarsi sul suoi trascorsi, sui suoi precedenti dischi, sulle sue influenze e sul suo modo di esprimersi è inutile, anche perché l‘intervista e il lungo articolo pubblicati di recente sulle nostre pagine assolvono efficacemente ogni onere informativo. In questa sede basterà ricordare che Laurie Anderson è l‘unico personaggio della musica d‘avanguardia ad avere ottenuto le copertine di ogni genere di pubblicazione e ad avere venduto milioni di copie pur proponendo un sound sfacciatamente anticommerciale.
L‘opera. United States è il lavoro più complesso e ambizioso concepito fino a questo momento dalla Anderson. È una performance di rara espressività nella quale confluiscono il teatro, il cinema, la tecnologia dei computer e delle “macchine da suono”, la poesia, la mimica, orchestrate dalla sensibilità di una donna che cerca di descrivere il flusso di pensieri che attraversano la sua mente di fronte alla complessa realtà di un Paese sconfinato e contraddittorio come gli USA. “Quando iniziai a scrivere United States’, lo concepii come il ritratto di una nazione. Gradualmente compresi che in realtà era una descrizione di una qualunque società tecnologica e dei tentativi della gente di vivere in un mondo elettronico”. Nella versione integrale, United States ha una durata di circa sette ore. È divisa in quattro parti, ciascuna ad analizzare e illustrare un aspetto della “american way of life: Transportation (che ingloba Americans On The Move, una performance del 1978/79), Politics, Money e Love. United States Live, il cofanetto di cinque album da poco pubblicato dalla Warner Bros, non comprende tutte le registrazioni del monumentale spettacolo ma una parte di esse per complessive quattro ore e mezzo (un po‘ più lungo dell‘edizione ridotta dello show, portata in tournèe dalla Anderson attraverso Stati Uniti ed Europa), tratte dalle esibizioni alla Academy of Music di New York del 7-10 febbraio 1983. Ricordo che la piece intera è stata applaudita soltanto a New York, Londra e Zurigo.
I suoni. Dal punto di vista strettamente musicale, United States è sorprendentemente scarna, ma allo stesso tempo è dotata di una notevole forza coinvolgente. Laurie Anderson ipnotizza e raggela con le sue recitazioni e i suoi dialoghi a base di voci filtrate, spesso privi di accompagnamento strumentale, ed evoca profonde emozioni quando imbraccia il suo violino magico. “Penso che il violino sia lo strumento più somigliante alla voce femminile. Ho sempre desiderato che il violino suonasse come una voce. Il violino è, secondo me, una estensione della mia voce”. L‘invenzione più significativa di Laurie è il tape-bow violin, sul cui corpo è montata una testina magnetica; l‘archetto è costituito da un nastro magnetico (sui quale sono incise delle frasi) che, passando sulla testina, dà vita a singolarissimi effetti. Parole bifronti, messaggi e liriche vengono riproposti in mille diverse maniere, con risultati davvero sorprendenti sotto il profilo sonoro. Il vero protagonista del linguaggio della Anderson è però l‘elemento verbale, il modo di collegare assieme le parole. “Nell‘Opera le parole non sono il fatto principale, non sono poesia o letteratura. Sono una specie di scusa per i cantanti per far risaltare al meglio le loro voci. Il mio lavoro è esattamente l‘opposto, il mio ‘cantare’ è una specie di estensione del parlato. Sicuramente non è ‘bel canto’, io provo molto più interesse nel parlare a ritmo e nelle parole stesse piuttosto che nel canto”. E Laurie inventa. Crea. Gioca con le parole, le distorce, le rallenta, le accelera, le fonde con la musica. Fa che esse stesse diventino, in un modo o nell‘altro, musica.
Considerazioni. All‘epoca, era il 28 febbraio del 1983, ebbi l‘occasione di assistere alla prima nazionale di United States. Rimasi fortemente impressionato dalla caratura della performance, oltre che, naturalmente, dal carisma di Laurie, inimitabile nel comunicare con i movimenti di volto e corpo. Visivamente parlando, United States è senza ombra di dubbio quanto di più significativo si possa immaginare per descrivere (e, soprattutto, per rappresentare) l‘argomento in questione. Stupisce, perciò, la giustificazione fornita dalla Anderson della sua scelta di non diffondere l‘opera sotto forma di videocassetta. “È davvero difficile filmare uno spettacolo come quello, perché c‘è uno schermo enorme, e contemporaneamente, su un altro livello, hanno luogo altre azioni. Filmando l‘intero stage si vedrebbero solo delle figurine che si muovono avanti e indietro; dal vivo, invece, il pubblico è la telecamera che può inquadrare l‘immagine completa”. Motivazioni accettabili, ma ciò non toglie che un‘uscita di United States in video, anche se con gli inevitabili limiti tecnici (risolvibili, comunque, con una buona regia), sarebbe di gran lunga più efficace e interessante della sua edizione un vinile, decisamente inadatta a far comprendere significati e sfumature di un lavoro tanto mastodontico quanto fondamentale per l‘Arte degli anni ‘80.
Big Science, l‘album che per primo presentò al mondo qualche stralcio delle meraviglie di United States, aveva alle spalle un accurato lavoro di studio, volto a valorizzare al massimo le composizioni, altrimenti troppo essenziali e nude; inoltre, pur nella loro incompletezza globale, i frammenti selezionati per il 33 giri erano sufficienti a fornire un inquadramento di sicuro effetto al lavoro, con meno dispersivita e prolissità di quanto faccia il cofanetto. United States Live, insomma, è lavoro che per i suoi 3/5 non verrà ascoltato più di una volta, giacché pochi sono i brani che, privi del supporto delle immagini, riescono a suscitare un qualche interesse oltre a quello documentaristico o conoscitivo: la poesia di Laurie, tanto validamente sottollneata dalla gestualità della performer e dalla potenza espressiva degli scenari, appare svuotata di gran parte della sua forza, come il sonoro di una pellicola alla quale viene a mancare la proiezione. Se in Big Science, dunque, gli arrangiamenti, la novità dell‘insieme e soprattutto la scelta delle composizioni rendevano il disco, pur nell‘astrusità di alcune soluzioni, affascinante e godibilissimo, in United States Live la monotonia di certi schemi uccide molto spesso la curiosità di sapere cosa si celi nel prossimo solco; è quindi del tutto fuori luogo pensare al cofanetto come a un Big Science moltiplicato per cinque, mentre non paiono ingiustificate le accuse di chi vede in tale business solo l‘ennesima manovra speculativa della Warner. Perché, allora, non includere almeno un opuscolo con i testi, invece di obbligare chi vuole capire qualcosa dell‘opera ad acquistarli a parte nel volumetto venduto alla “modica” cifra di venti dollari, trenta per l‘edizione di lusso?). Nulla da eccepire, intendiamoci, sulle capacità della Anderson, sulla bellezza di United States e sulla necessità di rendere disponibile al pubblico più di qualche passo di un capolavoro di tale portata; ciò che mi preme, invece, è mettere in evidenza il fatto che l‘operazione, proprio per la sua importanza, doveva essere articolata diversamente (ad esempio, un box di due videocassette + booklet, e magari un‘altra raccolta di “canzoni” da affiancare a quelle di Big Science). Meraviglia che Laurie, con la sua visione particolare del music-biz e del mondo in genere, abbia appoggiato questa realizzazione, ma mi stupirebbe ancor di più scoprire che ella, con la sua intelligenza, si sia magari lasciata incastrare da qualche clausola contrattuale non proprio onesta (anche se è noto che, negli artisti, la presenza di un intelletto volto alla creatività tende a escludere il senso pratico). Per quel che mi riguarda, penso che gli unici a essere contenti di United States Live saranno i feticisti del vinile, che avranno un altro slmulacro da esporre in bella mostra nei loro scaffali/templi; gli altrl, che da esso si attendevano la comprensione definitiva del “masterpiece” avanguardlstico di questo decennio, sono inevitabilmente destinati a un sorriso amaro.
Guida al cofanetto.
Part One: occupa le facciate 1-2-3. Domina la recitazione (eccetto che nel terzo lato), più spesso nuda e talvolta con un pacato sottofondo. Le composizioni musicali sono For A Large And Changing Room (uno splendido strumentale a base di violino), Cartoon Song, Three Walking Songs (tape-bow violin), So Happy Birthday, Three Songs For Paper, Film And Video e Born, Never Asked (compresa anche in Big Science); a queste vanno aggiunte le brevi Violin Solo, Sax Duet e Sax Solo (caratterizzata dal trattamento al tape-bow violin). Da segnalare la presenza di Peter Gordon ai sintetizzatori.
Part Two: facciate 4-5-6, con equilibrio di “canzoni” e dialoghi. Oltre alla celeberrima O Superman, questa parte contiene capolavori musicali come From The Air, Talkshow», Let X=X, Violin Walk e le suggestive Language Is A Virus From Outer Space e City Songs. Menzione d‘obbligo per la presenza del batterista/percussionista David Van Tieghem, che collabora anche alle altre due sezioni di United States.
Part Three: facciate 7-8. È la parte più frammentaria, divisa com‘è in tanti brevissimi dialoghi/monologhi e intermezzi musicali. Dr. Miller e Big Science (più lunghi e articolati) sono, comunque, episodi memorabili, fra i più belli ed espressivi dell‘intero lavoro.
Part Four: facciate 9-10, anch‘esse divise in numerosissimi pezzi soprattutto recitativi. In campo musicale spiccano Blue Lagoon (inclusa in Mr. Heartbreak), We‘ve Got Four Big Clocks e Dog Show.
(da Il Mucchio Selvaggio n.84 del gennaio 1985)

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