Hope Sandoval (2002)

Mi sarei spostato volentieri da Roma anche per un’intervista con la frontwoman dei Mazzy Star, ma San Francisco era davvero troppo lontana. Logico, quindi, ripiegare su una chiacchierata telefonica, incentrata non solo sul debutto in proprio accompagnata dai Warm Inventions – il bellissimo Bavarian Fruit Bread – ma anche su temi più generali. Per la cronaca, i Mazzy Star non hanno ancora realizzato il famigerato quarto album (il loro ultimo rimane Among My Swan del 1996), mentre la Sandoval ha offerto un secondo capitolo personale nel 2009 con Through The Devil Softy.

Sandoval fotoNel cuore, la speranza
Non era nata sotto buoni auspici, questa chiacchierata con Hope Sandoval: prima una recensione di Mojo nella quale il giornalista raccontava come un suo tentativo di colloquio telefonico era stato miseramente frustrato da mezz’ora di quasi totale silenzio, e poi l’avvertimento da parte della casa discografica – naturalmente volto a mettere le mani avanti – sulla timidezza della frontwoman dei Mazzy Star. A complicare ulteriormente la già difficile situazione, infine, avrebbe potuto contribuire la prima domanda da me rivoltole pensando che lei e William Reid fossero ancora una coppia (il gossip, si sa, non è il mio forte): dall’altro capo del filo, sull’asse San Francisco-Roma, Hope ha così chiarito – con voce flebile ma secca – che il suo legame sentimentale con il chitarrista dei Jesus And The Mary Chain si era dissolto e che la cosa non le dispiaceva nemmeno un po’. Aggiungendo che entrambi adesso erano molto più felici, ma squarciando per fortuna il velo di imbarazzo che mi stava soffocando – del quale si era accorta per via delle mie scuse farfugliate – con una squillante risata liberatoria.
Nonostante le disastrose premesse, e nonostante la bella chanteuse non sia stata esattamente un preclaro esempio di loquacità, la missione-intervista è stata portata a termine senza grandi problemi e con esiti apprezzabili. Del resto, sarebbe stato paradossale fallire proprio con un’artista il cui nome di battesimo significa speranza.
L’uscita di questo tuo album a nome Hope Sandoval & The Warm Inventions significa che i Mazzy Star non esistono più?
No, assolutamente. Significa solo che ho voluto pubblicare le canzoni che ho scritto con Colm O’Ciosoig. Le nuove dei Mazzy Star vedranno invece la luce in un altro disco, probabilmente quest’anno. Ma non ci siamo posti scadenze, arriverà quando arriverà.
È dal 1996 che non avevamo vostre notizie discografiche: un bel po’, specie considerando la “velocità” del mercato odierno.
È quello che ci dicono in tanti, ma noi non ci preoccupiamo di queste cose. Anzi, per renderci davvero conto del trascorrere del tempo dobbiamo rifletterci su.
La vostra è una carriera strana: quando avete deciso di “congelarvi”, eravate una band di successo.
Ci siamo fermati quando abbiamo capito che non ci stavamo divertendo più a causa di quello che si era creato intorno a noi. A un certo punto abbiamo avuto la netta impressione che, per buona parte della gente che ci seguiva, la musica non fosse poi così importante, o in ogni caso lo fosse meno del “fenomeno” Mazzy Star. In tali condizioni, continuare a suonare avrebbe significato essere falsi, e noi non abbiamo voluto farlo.
In particolare, quali comportamenti vi hanno dato l’idea che le cose stavano prendendo quella piega?
Beh, che i nostri concerti assomigliassero sempre più a dei party, con gente che faceva casino… e poi MTV… e lo stage-diving…
Hai detto stage-diving? A uno show dei Mazzy Star? Non riesco proprio a immaginarlo.
Mi rendo conto che non avendolo visto può essere difficile crederlo, ma posso giurarti che accadeva.
Capisco. Però, scusami, non mi sembra una ragione valida per interrompere l’attività.
Infatti avevamo deciso solo di prenderci una pausa per fare anche altro e pensare alle nostre vite private. Diciamo che quello che doveva essere un temporaneo ritiro è durato più del previsto.
E tu cosa hai fatto, in questi cinque anni?
Ho collaborato con un po’ di persone, muovendomi tra San Francisco e Londra, ho suonato la chitarra, ho scritto canzoni… E ovviamente ho avviato questo progetto assieme a Colm.
A proposito di Bavarian Fruit Bread, pensi che avrebbe potuto essere un album dei Mazzy Star? L’approccio, in fondo, non è così diverso.
Beh, io la vedo in altra maniera. Innanzitutto, se fosse stato un disco dei Mazzy Star avrebbe avuto senz’altro molte più chitarre, e quando dico molte intendo proprio molte.
Le canzoni, però, potrebbero tranquillamente essere dei Mazzy Star.
Questo sì, certo: essendo io metà della band anche sotto il profilo della composizione, è logico riscontrare una certa uniformità.
Quanto ci è voluto per comporre Bavarian Fruit Bread?
Gli episodi più vecchi hanno al massimo due anni e mezzo, ma altri sono recentissimi. Non c’è stato un periodo specifico dedicato alla stesura delle canzoni: scriviamo in continuazione, già adesso abbiamo parecchi brani nuovi. Siamo stati anche indecisi sulla scaletta: Drop, ad esempio, abbiamo deciso di registrarla solo due settimane prima di masterizzare.
Ora che mi sono ripreso dalla mezza gaffe di prima, e visto che sei tu a proporre l’argomento, posso chiederti come va intesa la scelta di aprire l’album con Drop dei Jesus And The Mary Chain?
Semplicemente, è un pezzo che mi piaceva tantissimo. Una volta lo abbiamo anche interpretato assieme, dal vivo, e le sue caratteristiche mi hanno colpito così tanto che ho voluto cantarlo anche nel mio disco. William è un compositore davvero ispirato: adoro le canzoni che lui ha scritto, da solo o con suo fratello Jim.
OK, chiusa la parentesi. Tornando a Bavarian Fruit Bread, presumo che sia stato realizzato nel corso di più session.
Esatto. Le due tracce con Bert Jansch (chitarrista di straordinarie doti e figura-cardine degli ultimi quarant’anni di folk britannico, NdI) sono state registrate in Norvegia, dove ho vari amici e dove ho anche lavorato con i Mazzy Star. Il resto è stato inciso tra Londra e San Francisco, più qualcosa in Irlanda.
Tu e Colm come vi siete conosciuti?
Tramite William, circa quattro anni fa. Siamo diventati amici, e l’avere entrambi interessi specifici in campo musicale ha fatto il resto.
E i Warm Inventions sono una vera band o solo progetto di studio?
Entrambe le cose. È un nome che rappresenta bene la filosofia del disco, ma anche un gruppo di persone che hanno lavorato bene assieme e che in futuro intendono ripetere l’esperienza. Magari anche dal vivo.
Quindi Bavarian Fruit Bread non è un lavoro estemporaneo, ma il primo passo di un’attività parallela ai Mazzy Star.
Non lo so, vedremo. È comunque una parte della mia carriera, e quindi di me.
A proposito di te, cosa puoi dirci del tuo background musicale?
Ho ascoltato sempre tantissima musica, anche grazie ai miei fratelli e sorelle più grandi: Led Zeppelin, Bob Dylan e soprattutto Rolling Stones, dei quali mi sono innamorata quando avevo circa tredici anni. Sono stata ispirata e influenzata dal modo di cantare di Mick Jagger e dalla scrittura di Keith Richards.
Non lo avrei mai sospettato, sul serio. Ti facevo appassionata di folk e psichedelia.
Mi confondi con David Roback. Comunque amo anche il soul, i grandissimi interpreti come Aretha Franklin e i Four Tops. In generale ho gusti assai eterogenei.
Quando canti, però, quest’anima “soul” non emerge: il tuo è uno stile sussurrato, d’atmosfera, dove la voce non è mai “spinta”.
Credimi, se potessi permettermi di cantare come Aretha Franklin non mi tirerei certo indietro. Faccio del mio meglio cercando di sfruttare le mie capacità vocali, ma non sono mortificata dai miei limiti.
E quando componi non hai mai voglia di qualcosa di più energico, di più rock’n’roll? Bavarian Fruit Bread è dall’inizio alla fine un album lento, soffice e pacato.
Sì, ho scritto canzoni più movimentate, ma non sono entrate in questo disco. Ho capito di aver confezionato un album “morbido” solo dopo la sua uscita, quando la gente ha cominciato a dirmi “avete fatto un disco soft”… Eppure, mentre lo registravamo, non ci sembrava così… avevamo l’impressione che fosse più rock. Soprattutto nelle session a casa mia, credevamo che i vicini avrebbero chiamato la polizia per via del rumore. Quando ci si chiude nel proprio mondo si percepisce tutto in maniera personale.
In ogni caso, ne sei soddisfatta.
Oh, sì, è carino (peccato che la carta stampata non possa rendere la sensualità con cui è pronunciato quel “I think it’s nice”, NdI).
Non ne cambieresti nulla?
Qualcosa farei: inserirei qua e là qualche tastiera in più. Purtroppo non mi è venuto in mente finché non era ormai impossibile. Però funziona bene anche in questa veste.
Che importanza hanno i testi? Sono stupito dal fatto che non compaiano nel libretto.
Sono importanti per me, perché riflettono le mie sensazioni. Se non sono nel booklet non è perché credo abbiano poco valore – anche se onestamente non le considero “poesia” – ma solo perché penso che la loro collocazione naturale sia assieme alla musica e non al di fuori di essa. La differenza è la stessa che c’è tra seguire il dialogo di un film oppure leggerlo nei sottotitoli.
Tratto da Il Mucchio Selvaggio n.476 del 5 marzo 2002

Categorie: interviste | Tag: , | 3 commenti

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3 pensieri su “Hope Sandoval (2002)

  1. giannig77

    ci avevi promesso il trittico femminile e mai speranza fu meglio riposta… adoro Hope Sandoval, pienamente scoperta con i Mazzy Star ma poi ripresa anche nella sua precedente esperienza, sempre all’insegna di una classe, di un’espressività, di un’eleganza davvero senza eguali.. il dream pop per me è lei… punto

  2. Delle tre donzelle, la dolce Hope Sandoval è la mia preferita.

  3. Pretty Vacant

    Grazie Federico per ripresentare questa intervista, grazie davvero!

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