Elisa (2002)

Dopo Massimo Ranieri e Gianluca Grignani, ancora un post di quelli che magari non ci si aspetterebbe, almeno da me. Questa volta il tema è Elisa, artista che considero di livello molto più alto di quanto ritenga l’appassionato medio di rock (e dintorni). Con questi due pezzi si torna a un periodo cruciale nella carriera della musicista friulana, quello successivo alla vittoria (con Luce) del 51ª Festival di Sanremo e contemporaneo al terzo album Then Comes The Sun. Al proposito, ricordo un curioso aneddoto: colpito da come ero riuscito a entrare in sintonia con Elisa e “farla parlare”, l’allora direttore della Sugar mi offrì un lauto compenso per realizzare una “official interview” – una di quelle che si approntano per girarle ai giornalisti allo scopo di evitare incontri che potrebbero rivelarsi poco produttivi – ai… Gazosa. Come da copione, non sarebbe stata firmata, ma io rifiutai. Fessamente, molto fessamente.

Elisa copThen Comes The Sun (Sugar)
Abitualmente cruciale per chiunque, quella del “difficile terzo album” costituiva per Elisa una tappa molto insidiosa: non solo in termini di crescita artistica e di conferma (e, se possibile, miglioramento) dei risultati commerciali ottenuti con Pipes & Flowers e Asile’s World, ma anche e soprattutto in rapporto alla capacità dell’ancor giovanissima friulana di gestire in autonomia una carriera ormai più che brillante. Non ci sarebbe infatti stato da stupirsi se la vittoria conseguita con Luce all’ultimo Festival di Sanremo l’avesse indotta a imboccare la strada rischiosa della canzone “leggera” in italiano, e se le eventuali pressioni dei discografici – che tendono spesso, magari in buona fede, a schiacciare i propri protetti – avessero in qualche modo inquinato il suo approccio alla musica o soffocato una sensibilità che per esprimersi al meglio ha bisogno di essere lasciata a briglie sciolte.
Per Elisa, invece, i consensi sono stati preziosissimi per acquisire ulteriore fiducia in se stessa e di conseguenza la determinazione di imporre la propria linea di pensiero e di azione: una linea che, almeno in Then Comes The Sun, ha puntato sulle liriche in inglese (la scelta della nostra lingua è stata ritenuta prematura) e sullo sfrondamento di certe ridondanze che in passato appesantivano le strutture strumentali, oltre che alla piena emancipazione di un songwriting dove la presenza ritmica è quasi sempre sottomessa alla forza evocativa di suoni e atmosfere. Dal lungo lavoro effettuato in California con la produzione non invadente dell’espertissimo Corrado Rustici sono così scaturiti dodici episodi raffinati ma nel contempo asciutti – e leggiadri ma insinuanti, e sobri ma solenni, e “romantici” ma non sdolcinati – che all’immediatezza di impatto preferiscono l’intensità, esaltando le qualità tecniche ed espressive di una voce tra le più fascinose dell’attuale panorama “pop”; e che evidenziano la ricchezza interiore e l’eclettismo di scrittura di un’artista per parecchi versi sorprendente, alla quale – con affetto – possiamo solo “rimproverare” di non essere riuscita a liberare il lato oscuro e sovversivo della sua indole. In attesa che ciò si verifichi (perché prima o poi, statene certi, il fattaccio accadrà), Then Comes The Sun ha quanto occorre per riscaldare i cuori. E per conquistare un posto nello scaffale dove sono collocati i CD di regine di entertainment al femminile in bilico tra il sofisticato, il moderno, il classico e l’alternativo quali Tori Amos e Björk.
Tratto da Il Mucchio Selvaggio n.466 dell’11 dicembre 2001

Elisa fotoPoco prima dell’aurora
Un’intervista in due tranche, per di più realizzate a quasi cinque mesi di distanza l’una dall’altra, è certo un’anomalia. Un’anomalia che, in questo caso, consente però di far luce sul “prima” e sul “dopo” di un album “importante” come Then Comes The Sun, con il quale la giovane Elisa ha dimostrato di saper camminare, e con passo sicuro, con le proprie gambe. È stata felice di parlare con Il Mucchio, la ragazza di Monfalcone, perché nonostante ciò che magari sarebbe lecito ritenere è una dei nostri; e noi siamo stati felici di darle voce, perché al di là dei personali meriti artistici sono i musicisti come lei a poter fare qualcosa di concreto per cambiare le regole del pop nazionale di largo consumo

Prima…
L’appuntamento è nel cuore di Testaccio, storico quartiere romano (e romanista) che in questi giorni sta giustamente festeggiando la conquista dello scudetto giallorosso. Elisa arriva a piedi, vestita casual e senza trucco, e la borsa sportiva che porta a tracolla la fa sembrare ancor più una studentessa appena uscita dal Liceo. Per un’ora, al tavolo di un bar, la vincitrice dell’ultimo Sanremo ci ha raccontato di sé, della sua musica, del suo vissuto e dei suoi pensieri; con evidente sincerità e anche con una spigliatezza in contrasto con l’immagine di ragazza di poche parole, timida e un po’ schiva, che la accompagna da quando – e sono ormai quattro anni – è diventata un personaggio pubblico.
Cominciamo con un piccolo passo indietro, da Sanremo: come ti è sembrato il Festival, e quali erano le tue aspettative?
M piaceva sapere quello che dovevo fare dalla mattina alla sera: per una settimana è stato divertente, mi sembrava di essere in un villaggio turistico. Tutto era velocissimo… Sono andata senza aspettarmi niente, anche perché per me cantare in italiano era difficile: in generale non avevo un buon rapporto con le parole, e nelle interviste, per esempio, rispondevo spesso a monosillabi. Quella con l’italiano è stata una sfida fondamentale, una sfida che volevo vincere. Ma della gara in sé non mi importava nulla.
Cosa puoi dirmi di Luce?
In origine era in inglese, sono stati i selezionatori di Sanremo a suggerirmi di tradurla. Questo è accaduto in un mio momento molto particolare: avevo riallacciato i rapporti con la persona per la quale l’avevo scritta, e quindi ho pensato che, per renderla più diretta, fosse giusto cantarla nella mia lingua. A ripensarci, questa faccenda di Sanremo è stata un puzzle di coincidenze fragili, molto fragili, se ne fosse mancata anche solo una non sarebbe successo nulla. È un insegnamento importante, o almeno io lo prendo come tale: quando divento ansiosa, e ho paura di compiere qualche passo o penso troppo alle scelte da effettuare, arriva puntuale la prova che è inutile farsi tanti problemi e che le cose, alla fine, vanno come devono andare.
Il fatalismo può essere pericoloso.
Alla base si deve sapere ciò che si vuole e si deve mettere in campo il massimo impegno per realizzarlo. Però, per attenersi al detto, “l’uomo propone e Dio dispone”.
Sei religiosa, o dici “Dio” solo in senso figurato?
Mi sento profondamente legata alla natura e allo spirito. Lo spirito è la cosa più importante, ma non ha nulla a che vedere con il misticismo o con i riti. L’armonia con l’ambiente che mi circonda mi è indispensabile per capire quel che è giusto e quel che voglio fare: da sempre sono stregata dalla natura e dall’idea di imparare da essa, nei miei brani ne parlo spesso… cioè, quasi sempre.
Ora che hai esorcizzato il tuo timore dell’italiano, come intendi proseguire?
Mi rendo conto che c’è voglia di ascoltarmi ancora cantare nella mia lingua, ma penso che per farlo di nuovo debbano esserci ragioni molto speciali, come nel caso di Luce. Non mi piace fare le cose perché devo.
In sintesi, sulla questione della lingua sei ancora indecisa.
In parte so cosa voglio: ad esempio collaborare con Roberto Angelini, che ammiro come cantante e musicista e anche come persona. Secondo me la mia generazione dà di sé un’immagine troppo dura e veloce, un’immagine che non corrisponde appieno alla verità; vorrei aprire una finestra su questa verità e Roberto può aiutarmi a farlo perché possiede una sensibilità e un’eleganza davvero straordinarie. Credo comunque che il prossimo album sarà in inglese, forse con qualche canzone in italiano… ma non ne sono convinta.
Nei testi badi più al significato o alla forza evocativa delle parole?
Cerco di pensare all’impatto emozionale delle parole, infatti a volte devo sostenere vere e proprie battaglie con chi “controlla” le mie liriche per inserire proprio quel termine. Anche se secondo loro non va bene, mi prendo le mie licenze poetiche: il suono delle parole è molto importante.
Hai già alle spalle un bel vissuto. I tuoi ventitré anni ti sembrano molti, o ti vedi ancora una ragazzina?
Fino a un anno e mezzo fa, guardandomi indietro e vedendo quanto avevo già realizzato, sentivo un peso enorme. Poi ho capito che è sciocco, che la vita è sempre comunque più grande di me e lo sarà sempre, e che ho milioni di validi motivi per ritenermi un microbo e quindi per voler fare ancora molto altro. Adesso mi sento giovanissima.
Sei molto determinata?
Sì, per me l’importante è sapere cosa voglio ottenere. Riuscire non è un problema, perché ce la metto tutta e di solito ci riesco. E se non ci riesco non mi arrabbio.
Però, in pubblico e in TV, sembri sempre timida, quasi spaesata. Certe situazioni ti imbarrazzano?
Non lo so, non l’ho ancora capito bene. Spesso mi pare di essere fuori posto e spesso mi trovo a mio agio. In generale, però, amo esprimermi attraverso la musica: io non mi sento un personaggio della musica pop italiana del 2000, mi sento una musicista e cerco di essere tale. Il resto conta poco.
Il tuo non è pop convenzionale: ha un respiro antico, folk, direi quasi etnico.
Sarà l’essere cresciuta con una mamma romantica e sognatrice, una persona con i suoi miti e le sue favole. Mia madre mi ha insegnato a sognare, e magari quel che compongo risente della mia infanzia. Da piccola non mi consideravo italiana, friulana o chissà cosa, mi sentivo io e basta, e quando scoprivo qualcosa che mi piaceva – ad esempio, gli indiani d’America o certi popoli orientali – lo vedevo simile a me, quasi una fratellanza. Comunque sono incantata da tutto ciò che ha radici lontane: se dopo tanto tempo è rimasto, deve avere in sè qualcosa di importante, di universale.
Ho assistito a una tua performance solo voce e piano. In futuro, pensi di muoverti in quella direzione?
Sicuramente. Il pianoforte è il mio secondo strumento, e inoltre sono attratta dall’idea di fare di più con di meno. Di quel progetto fanno finora parte sedici brani riarrangiati in chiave “contemporanea”. Mi affascina l’idea di interpretare anche le parti molto aggressive solo con piano e voce, riempiendo tutti gli spazi con le note gravi del canto: pensando al drum’n’bass, ma usando solo la voce.
La filosofia del less is more è abbastanza lontana dai tuoi primi due dischi, i cui suoni sono in linea di massima molto “pompati”: la mia sensazione è che ti rappresentino solo fino a un certo punto.
Alla Sugar, di solito, quando ascoltano i miei demo si spaventano! Scherzi a parte, fino a poco tempo fa non mi sentivo del tutto sicura: non delle mie teorie, quanto delle mie capacità di metterle in pratica nel modo più opportuno sul piano tecnico. E questo, naturalmente, faceva sì che al momento di difendere le mie scelte con persone molto più esperte di me mi tirassi un po’ indietro.
Secondo me cercare di farti valere di più è non solo un tuo diritto ma anche un tuo dovere.
È vero, me ne sono resa conto crescendo. E infatti ho intenzione di essere meno accomodante. Per il prossimo album ho in mente qualcosa di parecchio scarno.
Te lo permetteranno?
Spero proprio di sì. Il mio obiettivo è una musica molto legata alla melodie e alle canzoni in se stesse, e non vorrei mai che dentro ci finissero cose gratuite solo perché “vanno di moda”. Io non pretendo di essere bravissima, ma credo che il mio giusto percorso, per delinearsi, debba passare attraverso una serie di tentativi. Amo le collaborazioni perché spesso sfociano in belle sorprese: prendi il lavoro con Howie B., in Asile’s World: non potevo credere che, invece di provare a rifarli, avesse voluto inserire nel disco proprio i sample che avevo inciso da me con il walkman.
Com’è il rapporto con i ragazzi che suonano con te?
In pratica siamo cresciuti assieme, conosciamo molto bene le nostre qualità e i nostri limiti e abbiamo rispetto l’uno degli altri. Dal vivo siamo un vero gruppo, nel quale ogni componente ha uno stile e un’identità che si combinano con quelli degli altri. Però i dischi, a parte il singolo Cure Me che è stato un’eccezione, preferisco farli lontani da loro e dal solito ambiente: in quelle occasioni ti devi reinventare, devi andare oltre, e quindi è meglio non avere al fianco qualcuno che ti conosce e ti ricorda chi sei.

…e dopo
La nuova intervista con Elisa, a causa di un calendario di impegni forse mai così intenso, avrebbe dovuto svolgersi durante il tragitto in taxi tra l’aeroporto di Fiumicino e gli studi della RAI di Roma dove la nostra interlocutrice era attesa per prender parte a una trasmissione TV. Un improvviso cambiamento di programma ci ha però costretti a ripiegare su una chiacchierata telefonica. Certo, si sarebbe potuto attendere un paio di settimane per ritrovarsi faccia a faccia, ma la curiosità di sapere com’era andata a finire era troppo viva per procrastinare.
Mi sbaglio, o con Then Comes The Sun sei riuscita a mettere in pratica quel che avevi in mente?
No, hai ragione, per la prima volta ho potuto fare proprio quel che volevo. Sono andata in California a registrare quello che avevo composto qui, mettendolo a punto assieme al produttore, Corrado Rustici, e suonandolo praticamente dal vivo. I brani sono piuttosto asciutti, senza la solita abbondanza di produzione: abbiamo cercato di far risaltare quel che già c’era senza aggiungere altro, e Corrado mi ha dato i giusti consigli su cosa evidenziare e cosa lasciare un po’ dietro. Un gioco di chiaroscuri, insomma. Nei provini c’erano alcune idee precise a livello di ritmiche e di suoni e mi ha fatto molto piacere che esse siano state conservate, così come la mia ipotesi di scaletta: è stato bello che Corrado mi abbia lasciato tantissima libertà e dato addirittura responsabilità che credevo fossero solo sue. Tutto ha funzionato con spontaneità e senza discussioni: è stato un vero lavoro di equipe anche con il tecnico Devon Rietveld, la ragazza che aveva già mixato Luce. Realizzare quest’album è stato bello e interessante, e sono felice che rispecchi la mia indole molto più dei due che lo hanno preceduto. E dire che prima ero così in apprensione… Ero decisa a ottenere i migliori risultati possibili nella situazione nella quale mi sarei trovata, il massimo possibile in quel momento, quindi ero arrivata a pensare “io ci provo, e poi sia quel che deve essere”. C’è stato anche un lavoro organico sui testi, Then Comes The Sun è quasi un concept: le liriche sono come una sola e tutte in qualche modo si rispecchiano nel titolo.
E qual è il concetto dietro il titolo?
È la frase iniziale di It Is What It Is, il cui messaggio è abbastanza semplice: accada quel che accada. È un messaggio positivo che non vuole sottintendere qualcosa di particolarmente eclatante: l’illuminazione sta in ogni giorno, perché il sorgere del sole è una delle poche certezze che abbiamo, una certezza che va al di là delle singole esistenze di noi tutti. Il filo conduttore dei testi è nella normalità, nelle sensazioni e nelle emozioni che sono nella vita di ogni giorno: la magia, se c’è, sta nella realtà. Non è un caso che le liriche siano poco autobiografiche: sono dedicate ad altre persone o parlano di altre persone che esistono veramente e che ho intorno. È un disco totalmente narrativo, mette i sentimenti in primo piano e parla di esperienze e di amici.
Dal punto di vista della scrittura mi sembra di notare una maggiore eterogeneità compositiva al confronto con il passato.
I pezzi sono stati composti in vari periodi, l’ultimo dei quali è andato da gennaio-febbraio fino allo scorso giugno. Poi ci sono cose vecchissime tipo Fairy Girl, che ha sei anni: avrei già voluto inciderla per Asile’s World ma per quell’album mi sembrava troppo eterea, troppo trasparente.
Mesi fa avevi lasciato una finestra aperta sulla possibilità di includere qualche pezzo in italiano. L’album, però, è tutto in inglese.
Ho chiuso quella finestra solo all’ultimo momento: ho tentato, incidendo versioni in italiano di brani come Fever, Rainbow, It Is What It Is, e con Roberto Angelini ho realizzato una Dancing che però non ci convinceva. Ero soddisfatta completamente solo di Un secondo, che è l’adattamento italiano di Stranger, ma non c’è stato il tempo di registrarla. La mia “sventura” è nel dover tradurre i miei pezzi dall’inglese, mentre mi piacerebbe molto saper scrivere canzoni direttamente nella mia lingua: con Un secondo è successo, infatti il testo racconta una storia che non ha nulla in comune con quella di Stranger. Il discorso, comunque, non è chiuso: di sicuro dal vivo ne eseguirò alcuni in italiano, come regalo “extra” per quanti verranno ai concerti.
Forse, per un album in italiano, è solo troppo presto.
Infatti. Ho lasciato perdere perché mi sembrava assurdo sforzarmi in quel modo con il rischio di ottenere qualcosa di poco spontaneo. Io non lavoro “imponendomi” le cose, di solito tutto vien fuori da sè: l’applicazione serve magari per “vestire” i pezzi nel modo più adatto, ma non in fase di scrittura. Prima c’è il dominio dell’istinto e dopo, magari, quello della ragione.
E alla Sugar come hanno preso il “gran rifiuto” dell’italiano?
Non hanno fatto i salti di gioia, so bene che ci speravano, però hanno capito che era una questione di rispetto per la musica già esistente. Si sono comunque consolati pensando che il discorso è probabilmente solo rimandato. Sebbene i risultati ai quali ero giunta possano anche piacere, mancava la mia convinzione: e per me inserire in un disco una cosa nella quale non si crede davvero è orribile, è come buttare una possibilità.
Fever, con le sue chitarre rumorose, è un po’ distante dal “canone Elisa”.
Sì. È un tuffo nel passato, quel riff ha tanti anni. La chitarra sul disco è la mia, tutte le chitarre “brutte” e superdistorte di Then Comes The Sun sono mie.
All’opposto c’è Time, all’insegna dell’elettronica moderna.
Quella l’ho scritta all’epoca di Sanremo. A me piacciono stili diversi, e non mi vergogno di dire che certe cose “pacchiane” degli anni ‘80 mi hanno sempre divertito.
E poi c’è It Is What It Is.
Sono affezionatissima a quella canzone, è davvero il brano più “rock”, in senso attitudinale, che abbia mai scritto. È un momento di grande sfogo, non vedo l’ora di suonarla dal vivo.
Nei precedenti album sembra esserci una maggiore ricerca “estetica”, mentre qui sembri cantare con la passione e il cuore.
È vero. Sia perché tutto è andato liscio in sede di produzione e sia perché non ho affatto subito il tour lungo e stancante che ha preceduto le registrazioni. Anzi, quest’ultimo è stato fondamentale per darmi la carica e la spontaneità che mi servivano e che per fortuna ho mantenuto in studio. Then Comes The Sun è stato il mio disco più veloce, per le voci mi sono serviti solo dieci giorni cantando tre ore al giorno.
In questo quadro di naturalezza rientra l’apparire nuda nel bellissimo video di Heaven Out Of Hell?
Anche. È stata una mia scelta, pur se derivata da varie coincidenze. Il regista Alessandro D’Alatri mi cercava per le musiche di Casomai, il film che stava girando, e Caterina lo cercava per dirigere il mio video. Ci siamo incontrati e parlando ci siamo stupiti nello scoprire che quel che lui voleva esprimere nel film è molto simile al messaggio del mio disco. Heaven Out Of Hell vuole essere un invito a cercare il buono anche nelle cose peggiori, tirando quindi fuori “il Paradiso dall’Inferno”. Nel video abbiamo sfruttato la scenografia esistente per la pellicola, con tutte quelle luci… aggiungere altro sarebbe stato fuori luogo e così ho deciso di denudarmi. Credo che, in quel contesto, la cosa sia azzeccata, e credo anche che in fondo sia in linea con il mio carattere: non sarei mai capace di ammiccare in modo sexy alla Britney Spears, ma in quella situazione non ho provato alcuna timidezza: ero io, come nella musica di Then Comes The Sun.
Tratto da Il Mucchio Selvaggio n.469 del 15 gennaio 2002

Categorie: interviste, recensioni | Tag: , | 8 commenti

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8 pensieri su “Elisa (2002)

  1. giannig77

    Elisa avrebbe potuto consolidarsi nell’ambito mainstream di respiro “internazionale”, invece ha optato, non senza resistenze, per la lingua madre. perdendo in qualità, soprattutto degli arrangiamenti. Rimane una valida artista, ma in fondo ormai è pressochè equiparabile a una Mannoia o a una Giorgia, artiste rispettabilissime ma legate a un mondo esclusivamente pop, da “classifica”, per quanto possa ancora avere un senso

  2. timelyangel

    Pero’ Federico, questo discorso sulla sincerita’ non mi convince mica tanto…va a fine che di questo passo si rischiano di rivalutare anche Albano e i Pooh…

    • Dimentichi che qui non si sta mica “rivalutando”… quello che penso l’ho scritto in tempo reale, mica con il senno di poi.
      Comunque Albano ha una gran voce, e le primissime cose dei Pooh, tardo-beat, non erano male.

  3. Anonimo

    Per me invece l’unica vera musica rimane il rock, comunque un po’ di colpa e’ anche di voi del Mucchio che ci avete educato ed insegnato a non essere “onnivori”…

    • Sì, in effetti a volte il Mucchio ha peccato un po’ di “chiusura”, ma senza esagerare. Io ho sempre cercato di essere abbastanza aperto, entro certi limiti.

  4. Anonimo

    E chi sarebbero i Gazosa???
    Io sono un “rockista impenitente” e di questo personaggio (Elisa), non mi vergogno a dirlo, non conosco un pezzo che sia uno…ho sempre schifato, fra l’altro, sanremo e tutto cio’ che proveniva da esso…tu voli piu’ alto, certamente, comunque bravo…ma basta! (come direbbero i lino e i mistoterital)…a proposito a quando un approfondimento su di loro??

    • I Gazosa erano un gruppo di ragazzini (quattordicenni o giù di lì) che ebbero un effimero ma discreto successo una dozzina di anni fa.
      Per il resto, che ti devo dire? Io mi costruivo barriere musicali solo da giovane, con il senno della maturità ho cominciato a vedere le cose in maniera diversa, non ponendomi problemi di genere o successo e valutando dischi e artisti in base a quanto mi appaiono – oltre che bravi, nel loro ambito stilistico – sinceri, veri.
      Elisa l’ho scoperta dall’inizio, l’ho recensita quando non la conosceva quasi nessuno, e certo non si può dire che facesse musica brutta o (biecamente) commerciale.

  5. A me piace la sua cover di Mad World.

    Probabilmente parte direttamente dalla versione di Gary Jules, ignorando l’originale.

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